«Keynes ha fatto la sua parte nel riempire l’agenda di contenuti validi. Toccherebbe ora all’economia e alla politica contemporanee individuare la risposta ai problemi del nostro tempo”. Non bisogna arrivare al finale del saggio introduttivo che Giorgio La Malfa ha scritto per la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta per capire che riproporre oggi Keynes ha un significato politico.

Rilanciare la Teoria generale in una nuova traduzione assieme a molti scritti anche inediti, con il monumentale e imprescindibile apparato critico che un’edizione dei Meridiani comporta, equivale a riproporre nell’Europa decimata dall’austerity la necessità di una organica e congrua politica economica improntata alla crescita.

Significa rompere nel dibattito pubblico il paradigma dominante delle politiche ordoliberiste teutoniche, e la rigidità nelle politiche di bilancio tipica di quell’atteggiamento, un po’ come fece lo stesso Keynes settant’anni orsono col pensiero economico classico, riportando al centro dell’attenzione disoccupazione e diseguaglianze. E reinstaurare la corretta interpretazione del grande pensatore - «un genio», riconobbe persino Paul Samuelson - che non è quella della vulgata liberista ( cosí di moda, e non è un caso, in Italia) che lo contrabbanda come l’uomo della spesa pubblica incontrollata.

Esiste qualcosa di più politico, nella fase storica in cui viviamo? Giorgio La Malfa al pantheon della politica appartiene, e questo è noto. Quello che della sua biografia si ricorda con minor frequenza è invece la formazione e il lavoro di economista, dagli anni in cui a Cambridge si trovò allievo degli eredi di Keynes - Khan, i due Robinson, Meade, e anche Piero Sraffa - fino al lavoro con Modigliani al MIT di Boston, e ai giorni nostri. Quattro anni all’opera per il Meridiano Keynes ora pubblicato da Mondadori, e prima alcuni lustri di studio e di libri keynesiani, come il bellissimo Sono un liberale?  curato per Adelphi apparso in libreria una decina d’anni fa.

Oggi si dice comunemente che quel che manca all’Italia è una congrua politica economica volta alla crescita. Ma anche la politica economica, ovvero l’idea che chi governa possa e anzi debba agire per orientare l’economia, è un’invenzione del pensatore economico inglese?

Keynes, che scrive negli anni della Grande Depressione seguita al 1929, si pone un interrogativo: il sistema economico si autoregola? E nella “Teoria generale” arriva a dimostrare come un sistema di libera concorrenza non produca di per sé la piena occupazione. A un certo punto scrive che gli economisti si dividono in due grandi tribù: coloro che son convinti che “col tempo, i gemiti e i cigolii il sistema torni alla piena occupazione”, e gli eretici, i quali sanno che un sistema di libera concorrenza non porta necessariamente alla piena occupazione. E da qui, certo, discende quella che oggi chiamiamo politica economica.

Il pensiero di Keynes ebbe grande fortuna per un trentennio, poi è sembrato scomparire dell’orizzonte del dibattito pubblico, infine è riemerso. Perché soprattutto in Italia è stato fatto passare per l’uomo delle “buche da tappare” e per il profeta del deficit spending?

Chiariamo subito che Keynes non proponeva di scialacquare denaro pubblico. Per nulla. Keynes scrive invece dell’ “obbligo per legge del pareggio di parte corrente”. Il che, tradotto all’oggi, significa non finanziare ad esempio le pensioni con il deficit, come ha fatto il governo italiano. L’idea di Keynes era che quando la politica monetaria da sola non basta, bisogna ricorrere agli investimenti pubblici. Anche a costo di “fare buche nelle strade e riempirle”, frase nella quale forse è vittima del proprio gusto del paradosso. Keynes era invece molto prudente. Era un liberale conservatore, convinto che “per salvare il sistema bisogna cambiarlo profondamente”. Il sistema era il capitalismo, del quale Keynes dava un giudizio moralmente negativo in quanto “egoismo e ingordigia”, e dunque fonte di diseguaglianze, ma che è “il solo motore per produrre ricchezza”, e dunque benessere. Per salvarlo, come scrive a Roosevelt in una lettera privata sin qui introvabile, occorre cambiarlo sufficientemente perché “possa stare in piedi”. Dice Keynes che ci sono due tipi di pessimisti, in proposito: i così convinti che il capitalismo sia marcio da esser necessaria una rivoluzione; e chi crede che sia così fragile che se lo si tocca vien giù tutto...

La “Teoria generale” è un testo che cambia la storia dell’economia perché dimostra quanto è fallace quello che i liberisti continuano a proporre ancora oggi, lasciate fare ai mercati e la ricchezza aumenterà per tutti, le briciole scivoleranno automaticamente anche ai più poveri...

In realtà anche i conservatori intelligenti sanno che non è così. Guardiamo all’America di Trump: la disoccupazione è sì al 3,5 per cento, ma con una volatilità del lavoro e a costo di diseguaglianze insostenibili. Keynes affrontò la questione posta dal suo principale antagonista, Hayek. I due avevano un pessimo rapporto, ma nel 1940, quando la London School of Economics viene sfollata a Cambridge, si incontrano e si apre un rapporto. A un certo punto Keynes mentre è in viaggio in nave, alla volta di Bretton Woods, prende carta e penna: sono d’accordo con quel che lei scrive, ma per affrontare i problemi sociali serve più Stato. Il punto, aggiunge, «è che chi somministra spesa pubblica deve essere di estrema prudenza e attenzione all’uso perverso, agli sprechi e alla corruzione». Perché è questa deformazione, la vera arma in mano ai liberisti.

Soprattutto in Italia. Dove Keynes ha avuto scarsa fortuna, nell’ultimo quarto di secolo, grazie alle finanze allegre degli anni Ottanta. Mentre l’economista keynesiano Pier Luigi Ciocca, in un discorso ai Lincei che Il Dubbio ha pubblicato, sostiene che solo gli investimenti pubblici ad alto moltiplicatore possan far da volano agli investimenti privati e anche all’aumento della produttività, cose delle quali l’Italia ha disperato bisogno. È d’accordo?

È indubbio che rinunciare allo strumento dell’intervento pubblico significa abbandonare la società a crisi come quella del 1929 o del 2007- 2008, oppure a produrre ineguaglianze, alta disoccupazione e cattiva distribuzione del reddito. Cosí si ottiene solo l’effetto di consegnare le nostre società a differenze inaccettabili che, come si è visto, producono disgregazione e l’emergere di populismi e sovranismi. I quali, come si vede in Italia col governo in carica, riproducono le distorsioni. Han finanziato il Reddito di cittadinanza e quota 100 proprio col taglio degli investimenti pubblici!

La disciplina rigida di bilancio è però l’altro bandolo del problema. Come si può battere l’ideologia ordoliberista della Germania?

Francamente, non sono sicuro che si possa riuscire a farlo. Non ci si riuscirà se la Germania non avrà un’evoluzione, perché è sullo scambio con il rigore assoluto di bilancio che i tedeschi si convinsero alla moneta unica, alla quale erano inizialmente contrari. E oltretutto, per cambiare questa impostazione, in Europa occorre l’uninanimità.

Sembra però qualcosa di fortemente irrazionale: è enorme il capitale accumulato in avanzo dalla Germania, e non usarlo danneggia gli stessi tedeschi...

I fattori che spiegano l’attaccamento della Germania all’ordoliberismo sono molti, a partire dal trauma dell’altissima inflazione degli anni Venti che favorí l’ascesa di Hitler, e dai trattati successivi sia alla Prima che alla Seconda Guerra mondiale fortemente penalizzanti per Berlino, e sui quali anche Keynes era stato molto critico. Ma sa, potremmo osservare che in quanto a politiche economiche non è la sola CDU tedesca ad essere irrazionale...

Si riferisce al fatto che l’ondata di liberismo in Italia è stata aperta dalle sinistre, dal D’Alema dei tempi dell’Ulivo mondiale, immagino.

Un errore gravissimo, perché la sinistra deve essere sociale o non è. Del resto proprio un consulente economico di D’Alema dirige oggi una delle centrali del liberismo italiano, l’Istituto Bruno Leoni...

Perché servono più politiche keynesiane oggi in Italia?

Intanto, serve ricominciare ad usare Keynes nel mondo, dopo trent’anni infausti di reaganismo e thatcherismo. Poi non possiamo non notare che in parte Keynes è già tornato, o per meglio dire è sempre stato nella cassetta degli attrezzi: cosa sono se non politiche keynesiane il quantitative easing della Bce di Mario Draghi, o le politiche economiche pre- Obama di Bush? Come le dicevo, Keynes è sempre stato nella cassetta degli attrezzi, anche in quella dei conservatori intelligenti. Quanto all’Italia oggi servono investimenti pubblici e un clima di fiducia che consenta e anzi agevoli gli investimenti privati: fu il mix di politiche pubbliche e spinta imprenditoriale a produrre il boom economico degli anni Sessanta, non dimentichiamolo. Ma tutto questo dipende dalla politica. Quello attuale è un governo privo di coesione interna, e che sta in piedi lo stesso. E pensare che, ai tempi in cui c’era una certa serietà in politica, se scoppiava una polemica tra Andreatta e Formica il governo cadeva nel giro di qualche minuto...

È indispensabile ricostruire la fiducia nel mondo imprenditoriale, senza far l’errore madornale di Renzi che, mentre tentava di reinstaurare un clima favorevole all’impresa, si comportava in modo da far pensare a tutto il resto del Paese che stesse colpendo e precarizzando il lavoro.

E poi sa, per far ripartire un Paese serve persino avere una politica estera, invece dell’isolamento internazionale, e non avere mai i toni aspri che verso l’Europa tenne Renzi come l’attuale governo. Toni che spesso sono e son stati, francamente, da Terzo Mondo. E puntare su investimenti pubblici utili, veri, capaci di convincere i mercati. Il contrario di quel che stan facendo Conte, Di Maio, e Salvini.