«È un tentativo di delegittimazione quando si dice che un giudice non è eletto dal popolo. Non lo è perché la Costituzione, a garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza, fa sì che i magistrati non siano eletti da nessuno e non debbano cercare il consenso popolare». Parole del vicepresidente del Csm, David Ermini, il quale interviene nei giorni caldissimi dello scontro tra il ministro dell'Interno, Matteo Salvini e un pezzo di magistratura. Ovviamente il pezzo che indaga su di lui in relazione alla vicenda della nave Diciotti, e che rischia di mandarlo a processo con l'accusa, pesantissima, di sequestro di persona.

Del resto Salvini ha più volte sottolineato che lui è stato eletto dal popolo mentre i giudici no. Come dire: cari pm, se volete far politica dovete passare per il voto popolare. E già nel 2017, dal palco di Pontida, luogo fondativo del ' mito' leghista, Salvini aveva promesso: «La Lega al governo proporrà un progetto di legge per avere giudici eletti direttamente dal popolo». Ma molti costituzionalisti avevano immediatamente smontato l'ipotesi di una legge del genere. Una legge ordinaria, infatti, non potrebbe rendere la carica di magistrato elettiva. Per farlo sarebbero necessarie modifiche della nostra Costituzione e, naturalmente, dell’ordinamento giudiziario attuale.

L’articolo 106 della Costituzione stabilisce che «le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso», e che ( articolo 107) «i magistrati sono inamovibili». Le due norme servono a garantire l’elevata professionalità del giudice, che appunto deve passare un concorso pubblico che ne certifichi la competenza, e la sua libertà da condizionamenti esterni.

Un giudice che fosse eletto, senza un vaglio tanto stringente delle sue capacità giuridiche, potrebbe rivelarsi incompetente. Allo stesso modo un giudice, anche eletto all’interno di una categoria di persone ritenute competenti ( ad esempio, i laureati in legge, o anche laureati che abbiano passato un apposito concorso), potrebbe piegare il proprio giudizio alla convenienza elettorale qualora dovesse ottenere la rielezione.

Questo avrebbe oltretutto delle ricadute sull’omogeneità dell’amministrazione della giustizia ( i giudici tenderebbero ad assecondare le priorità percepite, e non necessariamente reali, dei propri elettori) e sulla sua qualità. Una riforma costituzionale, che sarebbe inevitabile, richiederebbe d’altro canto tempi più lunghi e un elevato grado di consenso tra le forze politiche ( almeno una maggioranza semplice sia alla Camera che al Senato) oltre che nella popolazione.

Fatto sta che nello scontro tra poteri il vicepresidente Ermini prende decisamente le difese delle toghe e ribadisce: «Ogni istituzione non deve delegittimare l’altra, se rimaniamo nella divisione dei poteri che sta nella Costituzione non c’è nessuno scontro - assicura - Noi abbiamo una Costituzione perfetta nei suoi equilibri, non ha senso delegittimare un’istituzione nei confronti di un’altra. Se andiamo avanti all’unisono, ognuno nelle sue competenze, la Costituzione ne esce rafforzata». I magistrati, ribadisce il vicepresidente del Csm, «non sono condizionabili dalla ricerca del consenso ed emettono le sentenze in nome del popolo, non secondo la volontà del popolo, danno al cittadino garanzia di riserbo, competenza equilibrio ma non sono sacerdoti della volontà popolare». Poi «se i giudici sbagliano nell’esercizio della giurisdizione ci sono tre gradi di giudizio, per altre condotte la magistratura ha dimostrato di essere molto severa nel giudizio e di avere anticorpi molto forti».