C’è un passeggino vuoto fuori da una cella, poi un pallone su una branda, alcune mamme tengono per mano il figlioletto aggrappate alle sbarre, allattano nel cortile del penitenziario o disegnano con i loro bimbi nello spazio angusto dei corridoi delle sezioni. È uno spaccato di vita delle donne con figli piccoli in carcere offerto dalla mostra fotografica inaugurata il 10 settembre scorso a Torino e aperta fino al 17 ottobre presso l’Ufficio relazioni con il pubblico della Regione Piemonte. Tante sono le immagini della rassegna di un gruppo di fotografi, organizzata con la Conferenza dei volontari della giustizia di Piemonte e Valle d’Aosta e l’associazione di volontariato “A Roma, insieme”. L’intenzione del curatore Bruno Mellano, garante regionale del Piemonte, è quella di sensibilizzare l’opinione pubblica su quanto ci sia ancora da fare per applicare la legge del 2011 che dettava la realizzazione di Istituti a custodia attenuata per detenute madri ( Icam) e le case protette. Nessuno di loro poteva immaginare la tragedia che da lì a poco sarebbe avvenuta nel carcere di Rebibbia con la morte di due bimbi, ristretti assieme alla madre, la loro assassina. Un dramma che ha riportato alla ribalta la situazione dei bimbi nelle carceri italiane. Altre situazioni, che rischiavano di diventare un dramma, si sono verificate nel passato. Come un bambino nigeriano di meno di un anno che, a settembre del 2017, era rimasto intossicato dopo aver ingerito del veleno per topi nel reparto femmi- del carcere Gazzi di Messina, dove viveva insieme alla madre detenuta. Il bambino era stato ricoverato d’urgenza in gravi condizioni al Policlinico di Messina e poi dimesso dopo qualche giorno. Oppure, l’altro caso, avvenuto a gennaio dello scorso anno, riguardante una bambina di 14 mesi, detenuta assieme alla madre rom nel carcere di Cagliari, che aveva bisogno di cure perché ha subito un intervento chirurgico piuttosto delicato alla bocca e al palato. Ma era rimasta in prigione, senza dare la possibilità alla madre ( con altri due piccoli figli) di essere trasferita in un Icam, attualmente vuoto perché dislocato purtroppo in una località periferica e che richiede la presenza costante di agenti della polizia penitenziaria. Secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’amministra-zione penitenziaria, le detenute madri con figli al seguito presenti nelle carceri italiane al 31 agosto 2018 erano 52, con 62 bambini ( 33 italiani e 29 stranieri). Mamme e bimbi sono ristretti in 12 strutture penali, di cui 4 Icam, mentre 8 sono ancora le vecchie sezioni nido nei reparti femminili. Una trentina di bimbi vivono dunque nelle carceri vere e proprie, senza possibilità di fare una vita, almeno apparentemente, normale.

La genesi della normativa per le detenute madri. Nel corso degli anni si sono succedute varie leggi in merito alla questione delle madri detenute. Il tema era già stato affrontato nel 1975 con la prima riforma dell’ordinamento penitenziario. L’articolo 11 cita: «In ogni istituto penitenziario per donne sono in funzione servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere. Alle madri è consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido». Tale articolo ha modificato la precedente normativa del decreto Regio del 1931, di cui l’articolo 43 dava la possibilità alle madri detenute di tenere i propri bambini in carcere fino al compimento del secondo compleanno. Successivamente, nel 1986 venne varata la legge numero 663, cosiddetta “legge Gozzini”. L’innovazione più importante fu la possibilità per il condannato di ottenere, almeno in parte, le misure alternative direttamente dallo stato di libertà con il preciso scopo di sottrarre il condannato dal contatto con l’ambiente carcerario. La legge Gozzini introdusse una serie di disposizioni in materia di detenzione che possiamo riassumere in: permessi premio, affidamento al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà e liberazione anticipata. Per quanto riguarda la detenzione domiciliare, essa prevedeva come condizioni per la sua concessione una pena o un residuo di pena inferiore a due anni e, nel caso fosse stato concesso a madre o donna incinta, richiedeva che i figli fossero di età inferiore a tre anni e fossero con lei conviventi. Ma la legge non era completa: ha offerto ai detenuti gli strumenti necessari per l’effettiva realizzazione del progetto di decarcerizzazione, però mancava la previsione di forme rieducative. Nel 1998 nasce la “Legge Simeone- Saraceni”, che dà vita a una rielaborazione e a un miglioramento per garantire l’accesso alle misure alternative alla detenzione ai condannati meritevoli. Ma è conosciuta soprattutto come un importante traguardo raggiunto per la tutela del bambino e per il rispetto dell’importanza del rapporto madre- figlio, dando alle madri la possibilità di stare vicino ai propri figli in un periodo non più limitato alla sola infanzia. In particolare, dà la possibilità di espiare la pena nella propria abitazione o in un altro luogo di privata dimora, alle donne incinte o madri di prole di età inferiore ai dieci anni, prolungando così il tempo che la madre può dedicare alla crescita dei propri figli. Altro traguardo normativo è la legge del 2001, meglio conosciuta come “Legge Finocchiaro”, che tutela il rapporto genitori- figli dando vita a due nuovi istituti giuridici: la detenzione domicilianile re speciale e l’assistenza all’esterno di figli minori. Obiettivo primario della legge era evitare che a detenute madri si aggiungessero “detenuti bambini”, poiché l’ingresso del minore in carcere provocava un danno enorme al suo corretto sviluppo psico- fisico. La detenzione domiciliare speciale permette l’assistenza familiare ai figli di età non superiore a dieci anni da parte delle madri condannate quando non è possibile l’applicazione della detenzione domiciliare ordinaria. Per accedere al beneficio è necessario che sia stato espiato almeno un terzo della pena ( 15 anni in caso di ergastolo), che vi sia l’insussistenza di un reale pericolo di commissione di nuovi reati e che vi sia la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli. Nel caso non sia possibile applicare la detenzione domiciliare speciale, la «legge Finocchiaro» ha introdotto l’assistenza all’esterno dei figli minori che permette la cura e l’assistenza extracarceraria dei figli di età non superiore a dieci anni. La legge Finocchiaro, in sintesi, prevede la presenza dei figli con la madre, senza però precisare quale sarà il destino di questi minori una volta compiuti i tre anni. Altro grande gap della legge è che le misure alternative alla detenzione non sono applicabili né alle donne rom, in quanto queste non hanno residenza, né alle donne drogate, perché si pensa possano facilmente ricadere nella droga, né alle donne ancora in attesa di giudizio. In pratica la legge non è applicabile alla maggioranza delle detenute nel nostro Paese. Proprio per questo è stata partorita un’altra legge – l’ultima – nel 2011 che ha modificato il codice di procedura penale e introdotto altre disposizioni a tutela del rapporto tra le detenute madri e figli minori. Ma non basta nemmeno questa e i problemi sono rimasti. Domani la seconda parte su Il Dubbio.