Era l’ottobre del 2008, nel pieno della campagna presidenziale che vedeva opposti McCain e Obama. E McCain si trovava a Lakeville, Minnesota, a un rally di suoi sostenitori. Si prendeva il microfono, si faceva una domanda, McCain rispondeva, si passava. Arrivò il turno di una signora: «I can’t trust Obama. I have read about him, and he’s not, um, he’s an Arab – Non mi fido di Obama. Ho letto delle cose su di lui, e lui non è, beh, lui è arabo». Fu a quel punto che McCain – soprannominato The Straight Talk, per la sua abitudine di parlare chiaro, anche ruvidamente – strappò il microfono dalle mani della donna e disse forte e chiaro: «No, ma’m. No, signora. È un buon padre di famiglia e un buon cittadino, con cui io sono in disaccordo su questioni fondamentali. E la campagna è basata su questo.

Obama non è un arabo». Ci fu brusio, qualche protesta a voce alta – McCain tacitò tutti con un solo gesto. Erano i suoi sostenitori, ma a McCain non importava. Voleva parlare di politica, McCain. Non di bufale.

Doveva essere, la signora, una dei birthers, di quelli che sostenevano che Obama non fosse neppure cittadino americano e per via di padre fosse un arabo, perciò un nemico – una storia che si trascinò anche con Trump, che la cavalcò nella campagna contro Hillary, e costrinse Obama, che all’inizio era restio, a produrre il proprio certificato di nascita. Ma McCain era un’altra pasta d’uomo e di politico.

Ora, pensate per un momento al livello dello scontro politico nel nostro paese, alle campagne d’odio sul piano personale, alle bufale virali che girano nei social e che vengono vomitate per aggredire questo o quel politico – spesso donne, proprio in quanto tali – o all’uso disinvolto e strumentale delle regole di minima decenza sul piano dell’informazione, alle rodomontate di un Salvini, per dire, in cui non si riesce mai a capire quale sia “the issue”, la questione politica, per cui uno sta di qua e uno sta di là. Ecco, pensate per un momento questo, e poi ditemi se non viene da rimpiangere la destra degli altri. Nell’estate del 2017, appena una settimana dopo aver parlato pubblicamente della sua diagnosi di cancro – un glioblastoma al cervello, molto aggressivo e che non lasciava grandi speranze – tornò al Senato, accolto da una standing ovation. Si era nel bel mezzo di un dibattito rovente attorno l’abrogazione della legge di Obama sul sistema sanitario, l’Affordable Care Act, un pallino di Trump che voleva affossarlo a tutti i costi. Fece un discorso duro contro i propri colleghi di partito per il modo in cui il Senato aveva lavorato, e poi tre giorni dopo in una drammatica sessione di tarda notte affondò, con il suo voto, quel tentativo. Dopo il voto rilasciò una dichiarazione, che può essere ricordata come una sorta di testamento rispetto il suo modo di intendere i lavori di un parlamento democratico; esortò i propri colleghi «a tornare a legiferare in modo corretto, e rimandare la legge in Commissione, tenere audizioni, fidarsi gli uni degli altri e ricevere contributi e suggerimenti da entrambi i lati dello schieramento, prestare attenzione alle raccomandazioni dei governatori, e infine produrre una legge che finalmente fornisca assistenza sanitaria a prezzi accessibili per il popolo americano». Sarebbe davvero riduttivo definire questo promemoria per le istituzioni come bipartisan, perché si tratta piutto- sto di un alto senso del loro compito, e del proprio, tenendo sempre a mente che lo scopo è produrre leggi che risolvano i problemi della maggioranza della popolazione. E anche qui vien da dire – avercela, una destra così.

Duty, honor, sono queste le parole chiave per capire John Sidney McCain III, nato nel 1936 in una “dinastia” militare – il nonno, l’ammiraglio John Sidney McCain Sr., guidò diverse operazioni navali nel Pacifico durante la Seconda guerra mondiale dove il padre, John Sidney McCain Jr., si distinse come comandante di sottomarini sempre nello stesso scenario di guerra, e poi fu comandante delle forze navali in Europa, e dal 1968 al 1972 di tutte le forze armate americane nel Pacifico, comprese quelle impegnate nella guerra del Vietnam. Eppure, da giovane John era turbolento: cambiò venti scuole prima di trovarne una disposta a sopportarlo, ma si distinse più per l’abbigliamento trasandato che per lo studio, e quando arrivò a Annapolis, sede dell’Accademia Navale degli Stati uniti, faticò non poco nello studio, risultando tra gli ultimi del suo corso, finito nel 1958, ma eccelleva nel wrestling, nel football e nelle bevute e nelle scorribande tra commilitoni.

Dopo vari servizi, promosso luogotenente agli inizi del 1967, chiese di essere destinato in zone di guerra, e assegnato al Golfo del Tonchino. Nel luglio del 1967, durante una delle sue missioni di bombardamento, fu colpito da un missile terra- aria, si espulse e finì in un lago, dove venne catturato dai vietnamiti – e curato molto provvisoriamente. È qui che inizia la sua odissea da prigioniero. Quando i vietnamiti scoprono di avere tra le mani il figlio del co- mandante americano delle operazioni militari provano una trattativa – ma John, benché stremato dalle ferite e dalla dura prigionia, si rifiutò di sorpassare gli altri, secondo la regola “first in, first out”, chi è stato catturato per primo dovrà uscire per primo. Altri due anni di isolamento, e cede. I vietnamiti rendono pubblica la sua “confessione” – e lui non ne ha mai fatto mistero: ognuno disse, anni dopo, ha un suo punto di resistenza e di cedimento, io raggiunsi il mio.

Finalmente nel marzo del 1973, dopo di sei anni di prigionia, e poco dopo la firma degli accordi di Parigi che chiudono l’impegno americano in Vietnam, viene liberato. Accolto con tutti gli onori in patria, decorato – dopo qualche anno si rende conto che le gravi menomazioni fisiche dovute all’abbattimento dell’aereo e alle sommarie cure durante la prigionia non gli consentiranno di proseguire la sua carriera militare. Nel 1981 si dimette, con il grado di capitano. E l’anno dopo entra in politica, grazie anche al parziale sostegno economico della seconda moglie – figlia di un magnate della distribuzione della birra – e vince facilmente il suo seggio in Arizona. Il resto è abbastanza noto: nel 2000 perse le primarie repubblicane contro George W. Bush, che poi divenne presidente, e nel 2008, conquistata la candidatura, perse contro Barack Obama. Colpì, in quest’occasione, il fatto che avesse scelto come sua vice Sarah Palin, aggressivo e controverso governatore dell’Alaska, forse per dare retta all’ala rumorosa del Tea Party; ne parlò anni dopo e, senza spendere una parola di critica contro la Palin, disse che avrebbe dovuto scegliere piuttosto qualcun altro per il ticket repubblicano.

Quando la candidatura di Trump alle primarie repubblicane cominciò a diventare consistente fece di tutto, insieme a un pezzo del Partito, per contrastarlo, appoggiando altri candidati. Per Mc Cain la campagna di Trump stava facendo a pezzi il partito e i valori del partito repubblicano. Si ricevette una delle sferzate velenose di The Donald, che svillaneggiò il suo ruolo di “eroe di guerra”. McCain se l’è legata al dito – lasciando come disposizioni per il proprio funerale la richiesta di non volere assolutamente la presenza di Trump.

Con McCain forse si chiude definitivamente la “generazione Vietnam” in politica – quella impegnata da una parte e dall’altra. Si chiude la questione Vietnam, come quella che spaccò in due il paese, le sue opinioni. Il senatore era del ’ 37, e, per dire, Jane Fonda – ai tempi della guerra, Hanoi Jane, osteggiata dai veterani proprio per il suo impegno contro – è del ’ 36. Donald Trump che è del ’ 46, ma ancora in tempo per ricevere la cartolina precetto durante quella guerra, riuscì a rimandare la chiamata adducendo motivi sanitari – uno sperone osseo nel tallone, anche se non gli impediva di giocare a golf – e poi vinse il biglietto nella lotteria di quelli che non venivano chiamati.

Ai tempi del Vietnam, Trump studiava a Wharton come far soldi – e mentre il paese si spaccava tra chi manifestava contro la guerra e chi la sosteneva e chi pensava a come tirarsene fuori, Trump imparava il suo business immobiliare. Gli è andata bene. E a quanto pare va bene anche a quell’America che lo sostiene.

A McCain no, non andava giù.