«I migranti ospitati nell’hotspot di Lampedusa, in particolare i cittadini tunisini, continuano a subire una limitazione arbitraria della libertà personale, restando confinati nel centro o sull’isola, anche in assenza di norme specifiche». Lo denunciano in una nota Cild, Asgi, IndieWatch e ActionAid, alla luce delle attività di monitoraggio del progetto pilota “In Limine”. Il progetto ha l’obiettivo di realizzare indagini sulle dinamiche di arrivo, sull’accoglienza e sull’accesso alla protezione internazionale dei migranti che si trovano nell’hotspot di Lampedusa. Prevede, inoltre, l’utilizzo dello strumento del contenzioso strategico per contrastare le violazioni dei diritti umani. Ricordiamo che La Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, con la Sentenza Khlaifia e altri contro Italia del 15 dicembre 2016, si è espressa riscontrando diverse violazioni da parte dell’Italia ( la privazione di libertà personale e la mancanza di mezzi effettivi per ricorrere contro le condizioni di accoglienza, tra le altre).

Il governo italiano l’ 11 settembre 2017 e il 12 gennaio 2018 ha inviato al Comitato dei ministri due comunicazioni, indicando le misure adottate per prevenire il ripetersi delle violazioni rilevate dalla Corte. Entrambe le comunicazioni non sono state ritenute sufficienti dal Comitato dei ministri che ha richiesto ulteriori informazioni entro il 30 giugno 2018. In attesa di leggere le motivazioni, il progetto “In Limine” ha prodotto le considerazioni sopracitate e le ha inviate al Comitato dei ministri attraverso un’ articolata controrelazione che evidenzia come, appunto, nell’hotspot di Lampedusa continuino a verificarsi violazioni significative. Secondo le testimonianze raccolte dal progetto In Limine, «i cittadini tunisini subirebbero prassi discriminanti: mentre per i cittadini provenienti dai Paesi dell’Africa Subsahariana sembrerebbe essere quasi automatico l’avvio delle procedure per la richiesta di asilo, ai cittadini tunisini verrebbero posti ostacoli all’accesso a tale procedura e non riceverebbero adeguate informazioni». Le associazioni spiegano che «queste procedure, spesso attuate soltanto in ragione del paese di provenienza, sono propedeutiche al rimpatrio forzato in Tunisia». Conclude la nota che «tali rimpatri avverrebbero in violazione della normativa vigente e sarebbero di natura collettiva». A tal proposito è bene ricordare l’ultima relazione presentata al Parlamento da Mauro Palma, il Garante nazionale delle persone private delle libertà. Si evidenzia la necessità di strutture di detenzione differenti, di minore capienza, ma soprattutto rispettose dei diritti delle persone “ristrette”, non assimilabili al carcere. Il Garante ha posto l’accento soprattutto sul nodo hotspot che nascono dalla natura giuridica incerta di questi posti, che rispondono a funzioni diverse che ne modificano continuamente il carattere e la disciplina. «Se da un lato, infatti, - ha spiegato Palma - appaiono come luoghi a vocazione umanitaria per le attività di primo soccorso, assistenza, informazione e di prima accoglienza per chi ha manifestato la volontà di richiedere la protezione internazionale, dall’altro sono luoghi di svolgimento delle procedure di identificazione/ foto- segnalamento e di avvio delle operazioni di rimpatrio forzato. Procedure che impongono agli ospiti il divieto di allontanarsi dal centro fino alla loro conclusione e il ricorso alla coercizione nell’esecuzione dei provvedimenti di respingimento differito».