Lo scorso 22 marzo si è tenuta presso la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo l’udienza per la revocazione della confisca disposta nei confronti dei miei familiari. Mi ci sono avvicinato con sentimenti contrastanti. Da un lato ero certo delle nostre ragioni; dall’altro non sapevo se riporre ancora la mia fiducia nella giustizia terrena. Quando la Cassazione, con nostra grande sorpresa, confermò la confisca, quando ricevemmo dai carabinieri – come al solito, in prossimità delle festività natalizie – l’atto con cui ci veniva ordinato di lasciare, senza indugio, le nostre case, provai a fare di tutto per evitare ai miei familiari l’ennesima umiliazione.

Avevamo chiesto all’Agenzia nazionale dei beni confiscati la possibilità di occupare la casa, pagando un corrispettivo, in attesa del ricorso alla Corte europea. Non ricevemmo alcuna risposta. Proposi ricorso straordinario alla Corte europea, ma la Corte mi rispose che interviene d’urgenza solo nel caso in cui sia a repentaglio la vita di una persona, e si sa che togliere la casa non significa togliere la vita. Nulla valse ad evitare lo sfratto e, con l’anima in spalle, fummo costretti ad abbandonare le case costruite con il lavoro onesto dai nostri padri e nelle quali noi figli avevamo vissuto la nostra infanzia.

“Sig. Cavallotti, lei le ha le prove nuove per fare l’istanza di revocazione?!”, mi rispondeva l’avvocato quando lo sollecitavo ad agire per la riapertura del processo. E la mia replica era: “Avvocato, ma se non le andiamo a cercare, come le dobbiamo avere le prove nuove?”. Anche questi discorsi capita di fare ad una persona impelagata con la giustizia. Compresi di dover impiegare gli ultimi anni della mia vita nello studio dei fascicoli della vicenda giudiziaria della mia famiglia, alla ricerca di prove nuove che permettessero la riapertura del processo.

Non potevo mollare, non potevo lasciare che i sacrifici di una vita venissero per sempre cancellati. Lo dovevo a mio padre, a mia madre e a tutti i miei parenti che hanno condiviso le stesse sofferenze. All’immobilismo e alla rassegnazione che, pian piano, cominciavano a prevalere su di noi, doveva seguire una reazione. E la reazione ha comportato per me lo studio immane non solo degli atti processuali ma anche del contesto criminale a cui i miei familiari sono stati erroneamente ritenuti contigui. Se mi fossi limitato soltanto a studiare le carte processuali, difficilmente avrei potuto individuare prove nuove. La verità doveva essere ricercata là fuori.

La prima difficoltà nella quale mi sono imbattuto era quella di dimostrare, con prove nuove, l’innocenza di persone, miei familiari, già assolte perché il fatto non sussiste. Questo è il paradosso delle misure di prevenzione: dimostrare di non avere avuto niente a che fare con la mafia di fronte a una sentenza che ti ha assolto perché non hai avuto niente a che fare con il crimine.

Le fonti aperte, come internet, si sono rivelate preziose alleate per comprendere alcune dinamiche criminali e per smentire, con fatti certi, le accuse mosse nei nostri confronti. Mi ricordo i viaggi fuori dalla Sicilia, alla ricerca di riscontri alle nuove ipotesi difensive che pian piano affioravano nella mia mente.

“Di fronte a una grave ingiustizia, non ci possiamo rassegnare”, dice- vo ai miei familiari cercando di sollevare il loro morale a pezzi, riaccendendo nei loro cuori la speranza ogni qualvolta li aggiornavo sulle nuove prove che man mano emergevano.

È stato un viaggio pieno di insidie e di difficoltà, alla ricerca della verità. Un viaggio che ho compiuto con la forza del figlio che non si rassegna, con la grinta di chi è vittima di una ingiustizia e non vuole soccombere, ma anche con la lucidità del giurista che si deve estraniare dall’emozione per essere lucido e selezionare ciò che può essere utile per vincere la causa.

Ma è stato anche un viaggio a ritroso nel tempo che mi ha permesso di rivedere la mia vita, di constatare come essa sia stata influenzata da questa vicenda giudiziaria e di immaginare come sarebbe stata se lo Stato non avesse deciso, un giorno, di intraprendere, per i motivi che le recenti notizie di cronaca hanno contribuito a chiarire, una campagna di annientamento nei confronti di persone innocenti che avevano fatto solo il bene. Per fortuna, nonostante tutto, siamo ancora vivi e lottiamo per l’affer-mazione dei nostri diritti.

Dalla polvere del tempo è stata riportata alla luce una sentenza che si pone in netta contraddizione con la confisca; sono state raccolte oltre ottanta dichiarazioni che smentiscono le affermazioni dei periti allora nominati dal Tribunale, nuove dichiarazioni di collaboratori di giustizia, nuove dichiarazioni di persone informati dei fatti, nuove sentenze che permettono di chiarire i fatti di causa. I nostri avvocati sono stati bravissimi a esporre al Tribunale tutte le prove raccolte.

I miei studi giuridici mi convincono che le ragioni per un accoglimento dell’istanza di revoca ci sono tutte. Ma l’esperienza personale mi convince che, forse, l’accoglimento dipende solo dalla volontà dei giudici, forse dalla volontà politica, in un contesto anomalo in cui rimettere in discussione un provvedimento che ha inchiodato alla croce per venti anni centinaia di famiglie, ridotto alla fame un intero paese, distrutto patrimoni costruiti con i sacrifici, significherebbe assestare un duro colpo ad un intero sistema sul quale molti individui hanno fondato carriere e si sono arricchiti in danno della comunità e di molti padri di famiglia. Cosa che ha riconosciuto indirettamente il Pubblico Ministero nel momento in cui ha chiesto il rigetto della nostra istanza.

Non so se aspettarmi giustizia, di certo vivo questi giorni di tremenda attesa con la serenità propria di chi sa di avere fatto tutto quanto era umanamente possibile fare per far valere le proprie ragioni.

In questo viaggio ho conosciuto persone straordinarie, come gli avvocati Baldassare Lauria, Aucelluzzo, Marcianò, Iacona, Chinnici, Stagno d’Alcontres e Piazza; altre che non meritano di essere ricordate. E, per fortuna, ho incontrato il Partito radicale, l’unico che ha deciso di ascoltarci e fare della mia vicenda e di quelle analoghe alla mia una campagna coraggiosa di informazione e di lotta per affermare, anche nella lotta alla mafia, principi e metodi da Stato di Diritto, come invocava Leonardo Sciascia, non la “terribilità” dello Stato e delle misure di emergenza.

Pietro Cavallotti

IMPRENDITORE