Fino a un mese fa per Maria Elisabetta Alberti Casellati non si sarebbe mai pronosticato un futuro da seconda carica dello Stato. Non certo per i meriti, ma perché non faceva più parte del circuito politico propriamente inteso: veniva da quello, lontano, dell’autogoverno della magistratura. Un sistema di cui l’avvocatura è parte costitutiva: e appunto la presidente del Senato ne ha fatto parte, come laica del Csm, perché avvocata. Sta di fatto che si tratta di una galassia percepita dalla politica come distante, le cui radiazioni interferiscono con il sistema solare dei partiti solo per certi particolari incroci. Non s’accorge, spesso, la politica, che quel mondo è in grado di produrre figure di spessore, preziose anche per il Parlamento, come Casellati dimostra. Non solo. Lei stessa ha ricordato, nell’intervista di ieri al Corriere, che nel Consiglio superiore sono stati innanzitutto i togati a riempirla di congratulazioni, nonostante le sue pregresse battaglie contro la “magistratura politicizzata”. E questo è l’altro segno importante: rivela l’intensità del dialogo tra avvocati e giudici, la stato d’avanzamento di una dialettica che soprattutto negli ultimi anni si è rafforzata. La politica forse sottovaluta l’importanza che un simile binomio ha per il sistema giustizia. Ben la conoscono, invece, le due istituzioni coinvolte, il Cnf e il Csm, non a caso unite da protocolli d’intesa che certificano quella dialettica. E ora persino la politica, in modo forse un po’ casuale, ne riceve i benefici, a cominciare dall’elezione di Casellati.