Non capita spesso che un vicepresidente del Csm citi «i preziosi consigli» che riceve dal presidente della Repubblica. Venerdì scorso, al congresso delle Camere penali, Giovanni Legnini lo aveva fatto. Non era un semplice omaggio alla più alta carica dello Stato. E non doveva essere idealmente solo, il vicepresidente Legnini, quando poco dopo aveva lamentato il «fenomeno» dei magistrati che passano «dai talk show alla presidenza dei collegi della Cassazione». L’uscita in tv di Piercamillo Davigo, presidente della seconda sezione della Suprema corte, non doveva essergli piaciuta. Ma è probabile che non avesse entusiasmato neppure Sergio Mattarella, che è Capo, secondo Costituzione, anche del Csm. Altrimenti, nel suo discorso ai “magistrati ordinari in tirocinio” nominati lo scorso 3 febbraio, ieri Mattarella non avrebbe usato le seguenti parole: «La toga non è un abito di scena. Non si tratta di un simbolo ridondante. Viene indossata per manifestare il significato di rivestire il magistrato, che deve dismettere i propri panni personali ed esprimere così, appieno la garanzia di imparzialità». Il Presidente parla al Quirinale davanti ai giovani magistrati, allo stesso Legnini, al ministro della Giustizia Andrea Orlando e ai vertici della Cassazione.

Vale a dire il primo presidente Giovanni Canzio e il procuratore generale Pasquale Ciccolo. Con loro c’è il professor Gaetano Silvestri, che guida la Scuola superiore della magistratura presso cui quelle giovani leve si formano. «La toga non è un abito di scena», dunque, ma deve rappresentare la «garanzia di imparzialità». Garanzia che quindi “è per gli altri”. Che non dev’essere solo “nel” magistrato ma percepibile anche al di fuori. Si può forse dire che Davigo abbia tenuto ad apparire imparziale, quando alcuni giorni fa ha definito vergognosa la scelta con cui un certo esponente politico, Filippo Penati, aveva deciso di avvalersi della prescrizione?

Le parole di Mattarella rischiano di segnare una svolta irreversibile nel discorso pubblico sulla giustizia. Vengono dopo le polemiche per le dichiarazioni dell’ex pm e la replica di Legnini. Giungono, soprattutto, nel pieno di un confronto sempre più teso sul ruolo dei magistrati e la proiezione mediatica delle loro decisioni. E dal Colle arriva un richiamo non solo sulla visibilità e l’esposizione che rischiano di compromettere l’immagine imparziale. Il discorso entra con precisione chirurgica nel cuore di tutte le altre questioni da cui è scossa la giustizia. Innanzitutto in quella dell’ansia giustizialista da cui i magistrati rischiano di essere in un modo o nell’altro travolti: «L’attenzione dell’opinione pubblica rivolta all’azione giudiziaria non può e non deve determinare alcun condizionamento nelle decisioni», dice il presidente ai giovani magistrati. «Oggi, forse più che in passato, l’attività giudiziaria è spesso al centro del quotidiano dibattito pubblico, grazie anche all’evoluzione dei mezzi di comunicazione: si tratta di un fenomeno che consente, ancor di più, alla magistratura, nel rispetto delle regole processuali, di amministrare la giurisdizione con la doverosa trasparenza». E trasparenza vuol dire anche equilibrio, distacco dalle pressioni mediatiche, dai giudizi anticipati sui media: «Il processo penale non è una contesa tra privati che possono presumere di orientarlo condizionando i magistrati», è un altro passaggio chiave del discorso di Mattarella. Niente curve da stadio attorno alla giustizia: il processo, ricorda il presidente, «si svolge nelle aule di tribunale perché in quelle aule va assicurata la realizzazione delle garanzie dettate dalla legge a tutela non solo delle parti ma anche della imparzialità del giudice. È nelle aule che i fatti vengono ricostruiti secondo l’ordinato svolgersi del processo».

È il terzo punto decisivo: il processo non si fa sui giornali anche nel senso che la prova deve formarsi davanti al giudice terzo nel contraddittorio tra le parti. È il principio del modello accusatorio, che gli avvocati difendono contro l’evidenza della prassi. È il giusto mito, il più delle volte calpestato, della «verginità cognitiva» del giudice. Secondo Davigo, per esempio, una ridicola pretesa. Secondo Mattarella, una «garanzia» dettata «dalla legge».

Cari magistrati, d’altra parte avete una Costituzione che vi preserva, e difende persino dal Parlamento eletto dal popolo, non come vana guarentigia, ma sempre per assicurare la vostra imparzialità di giudi- zio. C’è anche questa lezione, nelle successive parole di Mattarella: «L’irrinunciabile principio dell’autonomia e dell’indipendenza, garantite dall’articolo 101 della Costituzione, non può essere, in alcun modo, una legittimazione per ogni genere di decisioni, anche arbitrarie, ma rappresenta la garanzia in difesa da influenze esterne». Ce n’è anche per quei pm che, come ha denunciato qualche giorno prima persino l’attale numero uno dell’Anm Eugenio Albamonte, usano le inchieste per fini politici. Prima il presidente ricorda che «è bene rifuggire da una visione individualistica della propria funzione, che può far correre il rischio di perdere di vista la finalità della legge e l’interesse generale della collettività». Poi va fino in fondo e aggiunge che il magistrato «non deve né perseguire né dar l’impressione di perseguire finalità estranee alla legge, ovvero di elevare a parametro opinioni personali quando fa uso dei poteri conferitigli dallo Stato». Quando si ha indosso la toga, il resto scompare. Così è, ricorda il Presidente. Anche se non tutti i magistrati danno l’impressione di tenerlo sempre a mente.