Dal suo anno di nascita, 1867, a quello della morte, 1936, passano sessantanove anni. L’arco temporale dell’esistenza di Luigi Pirandello coincide storicamente ( e politicamente) con il periodo che va dal post- Risorgimento e i primi passi della nuova Italia ai cosiddetti “anni del consenso” al fascismo. Ed è assodato che la cultura italiana di questo stesso periodo espresse un solo scrittore di rilevanza internazionale, Luigi Pirandello, il quale fu – come è stato scritto – la “coscienza della crisi” borghese in Italia. «Ma Luigi Pirandello – ha annotato Gian Franco Venè nell’ormai classico Pirandello fascista – fu anche uno scrittore fascista: aderì al Fascio consapevolmente, con predeterminazione e in tempi non sospetti di piaggeria».

Il grande drammaturgo, narratore e pensatore aderì infatti al fascismo nel momento meno opportuno, all’indomani del delitto Matteotti con un telegramma a Mussolini del settembre ’ 24. Pirandello, «il più inquietante tra gli scrittori del primo ’ 900 – annota Venè – scelse sul piano pratico e politico la condotta fascista in un periodo in cui essa non gli avrebbe dato né onori né prebende, e qualche tempo più tardi, messasi ormai la dittatura su binari sicuri, stabiliti i centri di potere e di sottopotere, Pirandello si sarebbe schermito». Del resto, lo scrittore siciliano era davvero lontano da militarismo, moralismo, retoriche, ritualità di massa.

E riservò sempre solo ironia e distacco davanti alle manifestazioni esteriori del regime. «Ma il fatto – conclude Venè – è che Pirandello fu fascista e non poté non essere fascista proprio per la coincidenza della sua visione aideologica con la non ideologia del fascismo». Tanto è vero che nel ’ 25 fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto da Giovanni Gentile. E che nella sua ultima conferenza stampa, nel ’ 36, difese la politica estera del fascismo e la stessa guerra d’Etiopia, accusando inoltre i giornalisti statunitensi di ipocrisia in relazione al loro colonialismo nei confronti dei nativi americani.

Detto questo, va ricordato come dopo l’iniziale produzione narrativa e quella saggistica, e l’insegnamento di lingua e letteratura italiana, la sua definitiva produzione teatrale inizia più o meno at- torno al ’ 16 e si sviluppa a partire dal ’ 21, accompagnandosi al parallelo percorso del fascismo in Italia. Pensaci Giacomino, Liolà, Il piacere dell’onestà, L’uomo, la bestia e la virtù, Sei personaggi in cerca d’autore, Enrico IV, L’uomo dal fiore in bocca trionfano nei principali teatri proprio in questi anni. E la fama del drammaturgo varca allora i confini nazionali, con i suoi lavori rappresentati in lingua inglese a Londra e a New York. Tanto che nel ’ 22, lui già 55enne, lascia l’insegnamento e si dedica a tempo pieno al teatro. Nel ’ 25 assume la direzione artistica del Teatro d’Arte di Roma. Dopo tournée trionfali in Argentina e in Brasile, nel ’ 29 viene nominato Accademico d’Italia.

Eppure, Pirandello che con il saggio L’umorismo nel 1908 aveva sfidato Benedetto Croce, la sua estetica e la teoria dei distinti, era stato scoperto e lanciato da Adriano Tilgher, un pensatore e critico che a differenza di lui nel ’ 25 firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Croce. Ed era il “relativismo” il tratto specifico messo in rilievo da Tilgher: chi meglio del grande drammaturgo aveva saputo diagnosticare la fine delle certezze, il disperdersi dei valori e con essi dell’identità stessa dell’uomo borghese? Tanto che anche un altro grande pensatore “relativista”, Giuseppe Rensi, ebbe a scrivere: «Nell’Italia di oggi il fatto che non esista una ragione una, e che la ragione non giova a dirimere, si afferma come la filosofia dell’epoca. Ed è singolare che questa situazione abbia avuto due manifestazioni, indipendenti una dall’altra. Nel campo filosofico la mia, e in quello dell’arte il teatro di Pirandello, che non è altro che la mia filosofia portata con grandissimo ingegno sulla scena».

Sin dai suoi primi scritti, l’analisi e l’arte pirandelliane si inscrivono in un clima di profonda delusione e di disincanto culturale. La ferita del Risorgimento tradito non si rimarginò mai nell’animo dello scrittore. E a ciò fanno da contrappunto il fallimento dell’ottimismo positivistico e la conseguente accusa che gli spiriti più avvertiti, e Pirandello è tra questi, lanciano contro il trionfalismo tecnico- scientista.

I rovesci economici della famiglia d’origine e il dramma della “follia” della moglie contribuiscono all’acuirsi del suo sguardo relativista. «Nulla a che vedere – spiega Giulio Giorello per spiegare filosoficamente il “relativismo” – con le caricature, talora fatte proprie da schizzinosi eruditi, per cui relativismo non sarebbe altro che la notte in cui “tutte le vacche ( ovvero tutte le credenze) sono nere”; piuttosto, è lo spirito di resistenza che contesta che una qualche credenza o forma di vita si arroghi il monopolio della verità o della giustizia».

Sulla base di un relativismo “profondo” Pirandello scrive infatti tutti i suoi capolavori e nel giro di un decennio arrivò a dimostrarsi come il drammaturgo di maggior fama nel mondo, come testimonia il premio Nobel per la letteratura ricevuto nel ’ 34. Molte delle opere pirandelliane cominciavano ad essere trasposte al cinema oltreché a Broadway e lo stesso Pirandello andava spesso ad assistere alla lavorazione dei film. Andò anche negli Stati Uniti, dove famosi attori e attrici di Hollywood, come Greta Garbo, interpretavano i suoi soggetti. Nell’ultimo di questi viaggi si incontrò con Albert Einstein a Princeton. Tema del colloquio? La teoria della relatività e – ancora – il relativismo, la messa in discussione di tutte le certezze scontate, metafisiche o ideologiche, comunque a buon mercato. «È un demistificatore Pirandello?

Un demistificatore – annotava Alberto Asor Rosa nel suo saggio La cultura in Storia d’Italia dall’Unità a oggi – e, al tempo stesso un mistificatore, nella misura in cui fu lui stesso un mistificato. Il rovesciamento dei miti, la messa in crisi delle nozioni e dei convincimenti più diffusi mettono lo spettatore di fronte alla miseria delle proprie conoscenze e capacità di conoscenza, ma lo convincono al tempo stesso di assistere al ritmo inesorabile e non modificabile della vita, alla tragicommedia dell’essere umano».

Nel ’ 36, dopo aver assistito alla riprese di un film tratto dal suo capolavoro narrativo, Il fu Mattia Pascal, Pirandello si ammala di polmonite e muore il 10 dicembre. Il regime fascista avrebbe voluto esequie di Stato. Vennero invece rispettate le sue volontà: «Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi». Per sua volontà il corpo, senza alcuna cerimonia, fu cremato, per evitare postume consacrazioni cimiteriali e monumentali. Le sue ceneri furono deposte in un vaso greco e portate nella sua Girgenti, nella villa di famiglia “Caos”.