È una storia di ordinaria violazione e straordinaria mobilitazione quella di Andrew Brunson. Il pastore protestante di nazionalità americana è detenuto da più di sette mesi in Turchia con l’accusa di «partecipazione a organizzazione terroristica armata». Questa storia dagli intricati risvolti comincia lo scorso 9 ottobre 2016, quando Andrew e la sua compagna Norine vengono convocati dalla polizia di Izmir e trattenuti con l’accusa di proselitismo «contro la sicurezza nazionale».

I due, originari della Carolina del Nord, vivono da oltre 23 in Turchia dove Andrew esercita la funzione di pastore per una piccola comunità protestante nella Chiesa della Resurrezione. Hanno vissuto serenamente nel paese straniero allevando tre figli, da tempo erano in attesa di un permesso di soggiorno permanente. Se Norine è stata rilasciata pochi giorni dopo l’arresto, Andrew è rinchiuso in un centro anti terrorismo dallo scorso 11 dicembre: un giudice ha ordinato la sua incarcerazione invece dell’espulsione. Tra lo sgomento di amici e familiari, non è emerso sulla vicenda alcun chiarimento e come spiega l’avvocato difensore della famiglia Brunson, Cece Heil dell’American Centre of Law and Justice, «siamo ancora alle congetture».

Dalle scarne informazioni che abbiamo, diffuse principalmente dalle organizzazioni americane che si occupano del caso, sappiamo che Brunson è accusato dal governo turco di affiliazione con l’Organizzazione del Terrore Gülenista ( FETÖ), il gruppo di seguaci di Fethullah Gulen. L’imam di 76 anni, accusato formalmente di aver architettato lo sventato colpo di Stato contro il Presidente Erdogan il 15 luglio 2016, si trova in esilio dal 1999 negli Stati Uniti, in Pennsylvania.

Nessuna prova resa pubblicamente tuttavia dimostrerebbe il legame tra i due, e le accuse si baserebbero su una testimonianza anonima secondo la quale Brunson avrebbe partecipato a una riunione di seguaci di Gulen. Secondo un’ulteriore versione, si sarebbe espresso a favore di cooperazione tra cristiani e “il movimento”, mentre il procuratore che si occupa del caso lo accusa di aver pronunciato «dei sermoni speciali di solidarietà con i curdi».

La debolezza delle prove a carico induce a credere che la vicenda sia alimentata da ragioni di ordine politico- religioso nell’ambito dei delicati equilibri internazionali tra Turchia e Stati Uniti. Fatta eccezione per la sua nazionalità, la condizione di Brunson rientra perfettamente nel clima persecutorio alimentato dal presunto fasllito golpe di luglio e, più precisamente, nell’insieme di arresti – più di 50mila - ordinati dal regime.

La maggior parte degli osservatori internazionali tuttavia tende a confutare l’implicazione di Gulen nel colpo di Stato, e ad oggi il governo americano si rifiuta di cedere alle insistenti richieste di estradizione del leader islamico da parte delle autorità turche. Ripercorrendo le vicissitudini diplomatiche tra Turchia e Stati Uniti nell’ultimo anno, emergono evidenti le tensioni tra i due paesi succedute ai fatti dello scorso luglio e risulta plausibile una giustificazione di tipo politico alla stessa detenzione ingiustificata di Andrew Brunson: il pastore sarebbe diventata una pedina nelle relazioni tra Washington e Ankara.

Come riportava il New York Times nel settembre 2016, a fronte delle teorie cospirazioniste che individuano un coinvolgimento americano nel colpo di Stato - accusa rigettata a suo tempo dall’ amministrazione Obama - il Primo Ministro turco Numan Kurtulmus ne esclude la possibilità sottolineando al contempo la necessità da parte del sistema giudiziario americano di affrettare il processo di estradizione di Fethullah Gulen.

Gli uffici giudiziari turchi avrebbero inviato a questo fine 80 scatole di fascicoli alla loro controparte americana a supporto delle accuse contro Gulen: «Non è una questione di tempo, è una questione di intenzioni. Vorremmo riconoscere una chiara intenzione da parte degli alleati americani nel supportare la democrazia in Turchia» ha insistito il Primo Ministro.

Intanto alcuni avvocati di Brunson considerano la possibilità di una persecuzione religiosa a danno del loro assistito. Se pure si volesse considerare il pastore come un bersaglio “religioso” in un paese a maggioranza musulmana tuttavia, la detenzione protratta riguarda necessariamente le relazioni tra Turchia e Stati Uniti: Brunson diventa l’ostaggio di Gulen nei termini in cui il potenziale rilascio dell’uno avanza con l’estradizione dell’altro. Buona parte degli aggiornamenti sul caso sono resi pubblicamente attraverso una pagina Facebook creata dalla moglie di Brunson, Norine, che si è rivelata una straordinaria risorsa di mobilitazione.

Lo scorso dicembre la donna informa che il marito non si trova in una condizione di pericolo, ma resta viva la preoccupazione per il suo isolamento «a causa delle differenze culturali, linguistiche e religiose con i suoi compagni di cella esclusivamente musulmani».

Gli appelli e le preghiere lanciate attraverso la piattaforma social sembravano approdati a un certo ottimismo in occasione di un incontro tra i membri della famiglia Brunson e i rappresentanti di Washington lo scorso 24 aprile, alla vigilia della visita di Erdogan negli Stati Uniti: «Che la luce e la verità, il diritto e la giustizia trionfino infine. Preghiamo il Signore per una liberazione nel mese di maggio», scriveva Norine.

Malgrado le numerose “conversazioni amichevoli” tra Trump e Erdogan, il Presidente americano non sembrerebbe aver fatto pressioni per il rilascio di Andrew, sulla cui vicenda giudiziaria non si sono prodotti progressi concreti: le discussioni tra i due Presidenti ruotano evidentemente sulla questione curda e lo «sforzo di cooperazione» tra i due governi si riduce «a un impegno contro i gruppi che usano il terrorismo per giungere ai propri fini». Non molto prima della visita di Erdogan, alla fine di marzo 2017, il segretario di Stato Rex Tillerson si era recato in Turchia per incontrare dei rappresentanti del governo e la stessa Norine Brunson.

Non è chiaro se Tillerson abbia discusso effettivamente del caso, ma la sua visita aveva favorito quantomeno l’incontro di Andrew con l’ambasciata americana, al quale era subito seguito un appello al Presidente Trump: «Chiedo al mio governo, all’amministrazione Trump, di battersi per me. Fate sapere al governo turco che non coopererete con loro su alcuna questione finché non mi avranno liberato. Non mi lasciate qui, in prigione»