Cento e più chilometri alle spalle e cento da fare / Di sicuro non ci sarà più qualcuno con noi / Devi dare tutto prima che ti faccia passare / Io non mi lascio andare / Non ci pensare / Non mi staccherò. Quando la strada sale / Non ti voltare / Sai che ci sarò. Nel 2000 Enrico Ruggeri in “Gimondi e il Cannibale” cantava così la sfida infinita tra Felice Gimondi ed Eddy Merckx. Una sfida che ha appassionato tantissimi sportivi sicuri che Gimondi non si staccasse dal Cannibale e riuscisse a vincere. Nei 14 anni della carriera il campione bergamasco ha tagliato per primo 81 volte il traguardo su strada e 59 in circuito. Ha indossato per 24 giorni la maglia rosa e per 19 quella gialla. Ha vinto un Tour ( 1965), tre Giri d’Italia (’ 67, ’ 69 ’ 76), una Vuelta (’ 68), un campionato del mondo (’ 73), due campionati italiani (’ 68 e ’ 72), due Giri di Lombardia (’ 66 e ’ 73), una Milano- Sanremo (’ 74), una Parigi-Roubaix (’ 66), due Parigi- Bruxelles (’ 66 e ‘ 76), due Gran Premi delle Nazioni a cronometro (’ 67 e ’ 68), due Trofeo Baracchi (’ 68 con Anquetil e ’ 73 con Rodriguez), sette tappe al Giro d’Italia e sette al Tour.

Lo raggiungiamo telefonicamente alla vigilia della tappa del Giro che è arrivata a casa sua, a Bergamo. «Quest’anno, tranne ovviamente l’arrivo a Bergamo, vado solo su a Pinzolo, dove presi la maglia contro Anquetil, e Canazei. Il resto della corsa lo guardo in tv» dice.

Lei, il figlio della postina di Sedrina, è arrivato a essere Gimondi

La mia prima bici mi è stata regalata in prima elementare, quando sono stato promosso. Poi sono diventato vice postino, aiutavo mamma Angela a consegnare la posta. E lo facevo in bici naturalmente, soprattutto nelle frazioni. Il mio papà era un trasportatore, aveva tre camion, ma è stato un ciclista.

Non solo Enrico Ruggeri le ha dedicato una canzone, ma anche Elio e le Storie Tese. Come Bartali, Coppi, Girardengo, Pantani. Che effetto le fa?

Quella di Ruggeri mi piace moltissimo perché è riuscito a rendere molto bene la fatica, dal testo si capisce che era un mio tifoso e un grosso appassionato di ciclismo. Lo “stomaco dentro al giornale” lo mettevamo davvero per proteggerci prima di affrontare una discesa. Mi fa molto piacere che le mie imprese, così come quelle di altri grandi del ciclismo vengano ricordate non solo dagli addetti ai lavori. Così veniamo ricordati da tutti.

Ma torniamo al Cannibale Merckx. Se non ci fosse stato lui come sarebbe stata la carriera di Felice Gimondi?

Era un cagnaccio che non mollava mai. Ma mi ha dato degli stimoli incredibili. Quando devi fronteggiare un avversario simile cerchi sempre di migliorare. Però, senza di lui, ho la presunzione di dire che cinque Giri e due Tour avrei potuti vincerli anche io.

Il ciclismo ha sempre vissuto di dualismi: Binda e Guerra, Coppi e Bartali, Moser e Saronni, Pantani e Armstrong e oggi Nibali e Aru, e così via. A lei è toccato Eddy Merckx: il più difficile.

Se lo dico io è facile, sicuramente è stato un uomo di una determinazione paurosa. Eddy aveva carattere, grinta, voglia di trionfare, tutto quello che serve per correre in bici e vincere.

Anche lei.

Anche io, ma lui era più forte…

Nel ’ 67 lei stava per riuscire nell’accoppiata Giro- Tour riuscita a pochi, ma andò male.

È il mio grosso rimpianto. Avevo cominciato il Giro con grossi problemi fisici. Pensi che ero tornato dal Belgio con una bronchite e un cardiologo mi consigliò di fermarmi per cinque o sei mesi. Ad- dirittura era a rischio la mia carriera, avevo il cuore troppo grosso. Per fortuna il medico sportivo dell’Inter mi tranquillizzò e mi disse che dovevamo solo curare la bronchite. Era martedì e il Giro sarebbe partito domenica. Il giovedì feci con Giancarlo Ferretti, che è sempre stato mio compagno di squadra, un test importante da Imola a Firenze e ritorno, scavalcando due volte gli Appennini. Al ritorno dissi a Luciano Pezzi, il direttore della Salvarani, che ero pronto per partire. Fu un giro durissimo per me. Sul Blockhaus vinse Merckx, che allora era al suo primo Giro, e io non ero tra i primi. Ho fatto di tutto per controllare la corsa, poi nel finale della competizione ho trovato la condizione: ho staccato Jacques ( Anquetil ndr.) sull’Aprica e sono arrivato al traguardo con oltre tre minuti di vantaggio. E ho vinto il Giro.

E poi il Tour…

Quando sono arrivato in Francia volavo, ma ho perso per una dissenteria. Tutta colpa di una bottiglietta d’acqua fredda. Allora non c’erano i rifornimenti, le tappe erano molto lunghe ed eravamo sui Pirenei. Me lo ricordo bene, ero senza acqua da trenta chilometri. Mentre correvo su una pista in terra battuta, mi sono avvicinato al camioncino della Perrier che seguiva il Tour, ho bevuto tutto d’un fiato e mi ha fregato. Ho perso il Tour ( vinto da Roger Pingeon, secondo Julio Jiménez e terzo Franco Balmamion ndr.), e non ho fatto la doppietta con il Giro. Un vero peccato.

In quel periodo c’erano tanti bravi ciclisti oltre al Cannibale: Anquetil, Jimenez, Zilioli, Dancelli, Bitossi, Motta, Adorni, Balmamion. Insomma, una bella lotta.

Erano tanti che in corsa menavano. Oltre a quelli che ha ricordato c’erano anche Jan Jansen e Raimond Poulidor. Tutti atleti di un certo spessore con i quali si battagliava ogni volta.

Chi è più vicino al ciclista Felice Gimondi: Nibali o Aru?

Vincenzo Nibali. Si difende su tutti i terreni è forte nelle corse a tappe e anche in quelle in linea. È determinato come lo ero io.

Un altro personaggio che è rimasto nel cuore di tutti gli sportivi è Marco Pantani. Lei che è stato suo direttore sportivo, come lo ricorda?

Fui chiamato alla Mercatone Uno per gestire Pantani. A chi mi chiede di Marco io rispondo che mi fa piacere ricordarlo nella tappa del Blockhaus, da dove è passato il giro in questi giorni. Aveva un problema al rocchetto e si attardò, i compagni lo aiutarono a rientrare prima della salita. Sembrava in difficoltà ma cominciò a recuperare posizioni su posizioni, rimontò Savoldelli, Gotti e per ultimo Jalabert. Arrivò al traguardo senza alzare le mani, non era sicuro di aver vinto. In quella salita fece una cosa eccezionale, rimontando ottanta corridori.

Un’altra brutta pagina per il ciclismo è quella del doping. Quando correva dovette subire anche lei quest’accusa. Tutti ricordano Eddy in lacrime.

Nei primi due anni della mia carriera non c’erano neanche i controlli antidoping. Nel 1967 vinsi una tappa al Tour e fui sottoposto al mio primo controllo. Purtroppo è una piaga che difficilmente sarà debellata. In un Giro arrivai terzo, non potevo fare nulla per vincere, ero andato male sulle Tre Cime ma fui trovato positivo per un prodotto che non era compreso nella lista. Facemmo le controanalisi al laboratorio delle ricerche antidoping, dopo aver preso gli stessi prodotti e aver corso per 120 chilometri. Il controllo diede lo stesso esito: c’erano picchi di anfetamina, ma non era vietato. Spero che gli atleti prima o poi capiscano che il doping va bandito, non solo dal ciclismo, ma da tutti gli sport. Pensi che ormai risultano positivi ai controlli antidoping anche i cicloamatori. Una cosa assurda che un geometra o impiegato assuma prodotti per vincere una gara amatoriale.

Da venti anni in sella alla sua Bianchi dà il via alla Gran Fondo Internazionale che porta il suo nome. Quest’anno si è corsa il 7 maggio la ventunesima edizione. Il tema scelto è stato “Tutto il rosa di Felice Gimondi”, dedicata al suo rapporto con il Giro d’Italia nell’anno della sua centesima edizione.

Mi fa molto piacere. È una bella manifestazione che ogni anno registra tantissimo entusiasmo e partecipanti.

Lei è considerato una figura importante del nostro sport, un esempio. Con Thoeni, Zoff, Facchetti, Mennea siete dei veri e propri monumenti.

Quasi tutti miei coetanei e miei simili. Soprattutto il mio amico Giacinto Facchetti, bergamasco anche lui, ma anche Zoff. Pur facendo sport diversi avevamo lo stesso approccio all’attività agonistica: persone di temperamento, abituate a lavorare e soffrire, a stare lontani dalle polemiche e a pensare solo a fare risultati.

E oggi qual è l’approccio allo sport?

I primi soldi che ho guadagnato li ho investiti nella casa per la mia famiglia. Prima della partenza di una tappa impegnativa dovevo essere concentrato, non potevo permettermi di avere preoccupazioni legate agli andamenti di titoli e azioni. La mia azienda erano le mie gambe, dovevo pedalare e provare a vincere.

Lei ha corso ed è stato protagonista in un periodo prima di grande entusiasmo e poi difficile come quello degli anni di piombo. Come ha vissuto quel pezzo di storia italiana dal sellino della sua bicicletta?

Mi ricordo che alla partenza del Giro d’Italia da Genova nel 1978 arrivò la notizia del ritrovamento del corpo di Aldo Moro. Partimmo, ma lo spirito era diverso. Ho vissuto quegli anni con preoccupazione. Nel 1976 vinsi il Giro, si festeggiava in piazza Duomo, ma non vedevo mia moglie Tiziana. Tornai in hotel e lì mi dissero che per ragioni di sicurezza i carabinieri l’avevano portata in un posto più sicuro. Si trattava di una misura di protezione presa perché nei giorni precedenti aveva ricevuto minacce telefoniche per lei e le mie due figlie. Aveva avvertito i carabinieri ma non mi aveva raccontato nulla. Io stavo lottando per vincere il mio terzo Giro e lei aveva fatto di tutto per proteggermi, per non turbare la mia serenità. Per fortuna la cosa finì lì.

Nella sua vita oltre lo sport la famiglia ha sempre rappresentato un riferimento molto forte. Le fa piacere che una delle sue due figlie, Norma, abbia questa passione per il ciclismo?

Sicuramente. Devo dire che su tutto c’è mia moglie. Lo dico sempre: il merito per le mie vittorie lo devo dividere con lei. Mi ha fatto sempre correre tranquillo badando alle figlie e a tutte il resto. Mia figlia Norma, che fa l’avvocato, è diventata una maniaca. Pensi che io ho una bici da corsa e una mountain bike, mentre lei ne ha quindici. Ora sta raccogliendo le maglie delle mie vittorie e le sta conservando. Si era anche candidata alla guida della Federazione ciclistica.

È arrivata seconda: la maledizione dei Gimondi?

No. Questa è stata una benedizione.