Che Ralph Dahrendorf sia morto a ridosso delle elezioni europee del 2009 in cui hanno predominato l'astensione e lo scetticismo era sembrata davvero una coincidenza significativa. Perché il filosofo tedesco ? cittadino britannico dal 1988 - all'Europa di Maastricht, delle banche e della burocrazia, lui che era un europeista convinto, non ci credeva nemmeno un po'. E lo spiegava: «I cittadini non sembrano affatto entusiasti del processo di costruzione dell'Europa. Si dice che bisogna portare i popoli dell'Europa più vicini alle istituzioni. Ma io credo che sia esattamente il contrario: sono le istituzioni che devono avvicinarsi alla realtà di tutti i giorni». E poi Dahrendorf aggiungeva: «L'Europa è diversa in tutto, dalle dimensioni degli Stati agli interessi economici, dal clima alle tradizioni, dai sistemi elettorali alle lingue. Dobbiamo imparare a convivere con la diversità e guardarci dai tentativi di normalizzazione». Vi pare strano tornare a riflettere sulla lezione di Dahrendorf oggi, all'indomani della Brexit e delle incognite che l'uscita del Regno Unito dalla Ue portà con sé? Semmai è strano che non lo abbia fatto ancora nessuno. Tanto più che Lord Dahrendorf - l'Inghilterra oltre alla cittadinanza lo aveva insignito del titolo - aveva in qualche modo previsto tutto quando aveva detto che l'identità europea non poteva essere realizzata con input e regole calate dall'alto, imposte da una burocrazia fredda e lontana anni luce dall'anima e dal vissuto dei popoli europei. E si badi Dahrendorf, per quei pochi che possono non saperlo, era un liberale, anzi un liberal, non certo un uomo di destra o uno che strizzava l'occhio ai populismi eccitatori di rabbia e di paura. E del resto la realtà effettuale delle cose non è di sinistra o di destra è solo reale. I sondaggi che da anni vengono fatti nell'Unione alla vigilia delle consultazioni europee continuano a ribadire lo stesso dato: una dimensione vasta del disinteresse europeo verso le elezioni per il rinnovo del parlamento di Strasburgo. Di media è sempre il 68% dei cittadini europei che ritiene che il proprio voto non cambierà nulla e più della metà, quasi sempre, dichiara di non ritenersi sufficientemente informata per potersi recare a votare. Eppure questi dati fino a qualche anno fa non hanno segnato anche un rifiuto dell'idea di Europa: per la maggioranza relativa degli intervistati infatti, almeno fino ai primi anni del duemila, l'Unione europea suscitava un'idea positiva, in Irlanda addirittura per il 65%. La stessa Irlanda che aveva detto di no a questa Europa con un referendum. Stefano Bartolini e Mark Franklin, del European University Institute, spiegano il disinteresse degli europei così: «Non sono elezioni che distribuiscono il potere politico o dalle quali dipenda il potere governante». A questo si aggiunge il generale disinteresse dei partiti nazionali per le elezioni europee, viste esclusivamente come una prova di forza interna. In Italia questo atteggiamento è sempre stato addirittura esibito dai partiti che non hanno mai incentrato una campagna elettorale europea su temi che non fossero nazionali. Peraltro tra i suoi primati negativi l'Italia vanta anche quello delle assenze dei nostri rappresentanti al Parlamento europeo e una scarsa attività parlamentare. Ma non è solo un dato italiano: il dato generale europeo sul tasso di partecipazione alle elezioni continentali segna un trend in costante calo dal 1979, l'anno in cui si tennero le prime elezioni europee e si recarono alle urne il 62,9% degli elettori. Una partecipazione che calerà sempre, fino ad arrivare ai minimi storici di oggi, dove per l'Europa hanno votato solo il 43% degli elettori. Un trend che vale la pena conoscere per farsi un'idea chiara della progressiva erosione di credibilità dell'Unione europea: nel 1984 votò il 59,98% degli elettori, nel 1989 il 58.41, nel 1994 il 56,67%, nel 1999 il 49,51, nel 2004 il 45,47. Un assenteismo elettorale che è stato peraltro inversamente proporzionale nella sua progressione al crescere dei poteri legislativi e di bilancio del parlamento europeo: una divaricazione tra rappresentati e rappresentanza sempre più larga che negli ultimi anni è poi dilagata. Nonostante ormai quasi l'80% delle competenze decisionali politiche nazionali si sono spostate a Bruxelles e a Strasburgo. Sono dati che dovrebbero preoccupare chi crede nella democrazia e non poco visto che ormai le commissioni di Bruxelles gestiscono un agricoltura comune, una moneta unica, i criteri di una governance finanziaria e del credito continentale per riferirsi a questioni investite dai più recenti dibattiti. Sicché di fronte a una megamacchina istituzionale che produce norme, regolamenti e leggi sarebbe il caso, come ha scritto Jacques Delors lo scorso maggio «di ritrovare le ragioni per cui abbiamo fatto l'Europa"». Perché il rischio è lasciar decidere delle nostre vite a una cupola di burocrati riuniti in un direttorio sovraterreno, a istituzioni lontane dal popolo e dalle sue reali esigenze. Perché i segnali che questa distanza si sta trasformando in aperto dissenso sono abbastanza espliciti ormai.In Germania persino il centro dello schieramento politico temeva alla vigilia della sua ratifica il Trattato di Lisbona. In Irlanda, dove il voto popolare ha detto no all'Unione europea, il governo è stato chiaro sul fatto di non voler recepire dall'Europa indirizzi e orientamenti legislativi che siano in contrasto con l'etica e la cultura maggioritaria di quel Paese. E i referendum sulla Costituzione europea, che si sono tenuti nei paesi europei dove la gente si è potuta esprimere sulla costituzione europea con un referendum, hanno tutti detto no alla costituzione europea. Ma basta attenersi ai risultati di queste ultime elezioni continentali per avere un quadro della situazione da leggere in questa prospettiva. C'è anzi tutto da tenere in conto l'affermazione dura e chiara di partiti di estrema destra e di partiti euroscettici, con picchi notevoli in Gran Bretagna, Austria, Olanda - dove il partito della Libertà di Gert Wilders è diventato il secondo partito - e alcuni paesi dell'Est come l'Ungheria e la Romania. Un segnale chiaro di rifiuto che evidentemente le destre moderate non sono riuscite a riassorbire. Anche se resta indiscutibile l'affermazione del Partito popolare europeo e la debacle di socialisti e socialdemocratici, puniti dalle loro profonde divisioni e dalla loro irreversibile crisi d'identità. L'Europa come l'abbiamo conosciuta finora è un palazzo di ghiaccio, non ha magnetismo, non muove passioni, non rappresenta né culture né tradizioni. Perché ci si dovrebbe sorprendere della distanza degli europei da quelle che vengono chiamate le loro istituzioni dunque? O dalla debolezza politica internazionale di questo organismo incapace di impostare e seguire una sua politica estera unitaria? Il sociologo Ulrich Beck ha scritto che «nella società di rischio mondiale, di fronte al pericoloso accavallarsi di problemi globali che resistono alle soluzioni nazionali, le nazioni-stato, abbandonate a se stesse, si rivelano impotenti e incapaci di esercitare la loro sovranità. La sovranità collettiva dell'Unione europea rappresenta allora l'unica speranza». Beck ha ragione. Però dimentica di aggiungere che un'Europa senz'anima, senza passato, senza radici, è un Europa a cui non crede nessuno, che non scalda i cuori, che non dà speranza. E' una specie di esperanto, la lingua artificiale europea che tutti avrebbero dovuto parlare e che nessuno, per fortuna, ha mai imparato. Perché le lingue, come i popoli e come le nazioni sono cose reali. E la nazione si supera unendo le nazioni, non minando le identità nazionali. Non solo: rischia di non essere un'entità democratica.Dahrendorf aveva visto il pericolo: la nascita della Cee era stata secondo il filosofo tedesco l'avvenimento politico più rilevante del XX secolo ma dopo quell'esperienza le istituzioni del Vecchio continente hanno cominciato ad arroccarsi. Dalla metà degli anni Ottanta, Dahrendorf è a favore dell'allargamento della Comunità, che vedeva come una questione urgente, perché «come è attualmente, la Comunità economica europea è la migliore possibile, ma non è granché e c'é da essere scettici anche sugli effetti del trattato di Maastricht, che guarda l'Europa dallo specchietto retrovisore, firmato da personalità alla fine delal loro carriera, che in esso hanno visto l'Europa del passato, invece che quella del futuro». Così, anni dopo, parlando della necessità di aprirsi al mondo, dichiarava: «L'Europa allargata che sta per realizzarsi costituisce un passo in avanti in questa direzione. Ma dobbiamo spingerci molto più oltre, verso quella che definirei una costituzione cosmopolita della libertà. Tutto ciò richiede cittadini attivi, che si impegnino per la democrazia e la libertà». Dahrendorf centrava un punto di strettissima attualità nel 1992: «Quando l'Italia si trova sola ad affrontare la questione albanese, questa comunità rivela tutti i suoi limiti» e l'Europa dovrebbe imparare a «affrontare i problemi reali quando essi di presentano, anche se non sono compresi nella sua agenda». Ancora nel 1998 Dahrendorf era contrario alla moneta unica, «che dividerà l'Europa più che unirla e continuerà a farlo in futuro (....) Sarà qualcosa di molto impopolare e non farà bene all'integrazione. Non aiuterà l'occupazione e neanche la crescita». L'anno in cui l'Euro entra in vigore, Dahrendorf metteva in guardia su una mancanza grave di democrazia all'interno dell'Europa che le faceva perdere consenso da parte dei cittadini: «Le leggi sono fatte in segreto, le riunioni del Consiglio dei ministri non sono aperte al pubblico e non ci sono meccanismi di controllo e alcun tipo di revisione giudiziaria appropriata». Sino all'ultimo Dahrendorf si è battuto per un governo europeo che affrontasse e avesse la facoltà di risolvere i problemi, rimarcando come di fronte ai nodi di politica estera ognuno finisse per andare per la propria strada. «L'Europa non è riuscita a creare ancora una classe dirigente europea» ripeteva il filosofo lanciando un appello: «Bisogna porsi il problema della democraticità delle istituzioni. I popoli europei, finora, non sembrano affatto entusiasti del processo di costruzione dell'Europa». No, Dahrendorf non si sarebbe stupito di Brexit. L'aveva prevista.