«Grande quantità indistinta di persone, considerata dal punto di vista del ruolo sociale, economico o politico parlare alle masse; massa di dimostranti “di massa” che coinvolge larghi strati di popolazione e i più diversi livelli sociali ed economici scuola di massa mezzi di comunicazione di massa: stampa, radio, televisione, cinema, web, etc». Più o meno, questa è la definizione che un qualsiasi dizionario ci dà del termine “massa” (nell’accezione sociologica), uno dei più laboriosi ed usati, se non il più usato dalla scienza e dalla pubblicistica politica del XX secolo, il secolo - appunto - delle società di massa dei paesi occidentali industrializzati. Sulle caratteristiche, il significato e i valori propri della società di massa si sono scritte migliaia di pagine, che di volta in volta hanno tessuto l’elogio di un mondo nel quale il benessere (esasperato o degenerato fino ad un inarrestabile consumismo) si diffondeva e si spalmava in forme omogenee su vastissime platee, o ne hanno deprecato le tipiche e un po’ ritualistiche manifestazioni, gli atteggiamenti livellatori e conformisti, ecc., perfino satireggiandoli: e valga ricordare l’Orwell di Fattoria degli animali e di 1984, che spingeva fino all’estremo il ritratto di un mondo nel quale l’individuo spariva, stritolato e nullificato (ma mi sia consentito ricordare anche, a testimonianza di quanto fosse sentito il tema della distopia - l’utopia negativa - della massificazione, due autori meno celebri di Orwell, il russo Evgenj Zamiatin con il suo Noi e l’italiano Corrado Alvaro, che su questo tema ha scritto, in piena epoca fascista, un bel romanzo, L’uomo è forte).La massa protagonista della società del secolo scorso aveva caratteristiche su cui la sociologia ha ricamato a fondo: esaltata dalle sinistre (ricordiamo le marxiane “masse operaie”, motore della storia) ha però ceduto non poco alle lusinghe della destra (cfr.  La nazionalizzazione delle masse di George L. Mosse). La massa venne anzi da molti ritenuta l’humus specifico delle dittature, fasciste o naziste (quella comunista ha origini diverse, nacque forse dall’assenza di una società di massa di modello occidentale): incapace di decisioni autonome e responsabili, la massa ha bisogno di qualcuno che, interpretandone le pulsioni più intime, la guidi dall’esterno senza consentire oppositori di sorta. E se non c’è in giro un dittatore perché il contesto politico è ancora sufficientemente democratico, ecco l’operaio di massa del fordismo-taylorismo, l’operaio alla Charlot di Tempi Moderni, ineluttabilmente legato, assieme a migliaia di altri come lui, a una catena di montaggio dai ritmi di lavoro ripetitivi e alienanti: un termine molto in voga, per denunciare quella società.Nel 1950, David Riesman ne descrisse strutture, modelli e valori in un’opera classica, La folla solitaria, punto di riferimento fondamentale degli studi sociologici successivi. Dalla sua analisi il profilo - per certi versi persino tragico - dell’uomo-massa emerge nettissimo: eterodiretto, educato alla scuola del conformismo, schiacciato dal bisogno di approvazione e di successo, abitante di un mondo governato dalle apparenze, spogliato della propria individualità, disarmato e sperduto nella moltitudine di suoi cloni che gli si affolla intorno, votato a un destino di incomunicabiltà e di solitudine. E come non ricordare il fondamentale studio di Elias Canetti, Massa e potere (1960): la massa aizzata, la massa in fuga, la massa del divieto, la massa di rovesciamento, la massa festiva e la massa invisibile (i defunti)?Ebbene, che fine ha fatto quella società di massa, l’uomo della società di massa? Nessuna analisi sociologico/politica delle società contemporanee di stampo industriale utilizza più quel modello, fa riferimento a quella figura. In primo luogo è sparita la figura dell’operaio, il sistema di lavoro fordista - la catena di montaggio - è stato sostituito da forme occupazionali più personalizzate e gratificanti; ma per molti versi è sparita proprio l’industria manifatturiera, non più perno della società; il lavoro “immateriale” sforna nuovi, inediti modelli, molto individualizzati e problematici. La crisi del lavoro di massa ha determinato il declino di strutture radicate in quel contesto sociale. I sindacati operai ad esempio: il rapporto del lavoratore con il datore di lavoro sfugge a parametri, norme e controlli fissi, i contratti nazionali vengono sostituiti da formule flessibili, collegate alle condizioni locali. Anche il concetto di welfare sta evolvendo, incurante delle critiche di quanti, nel disgregarsi del sistema di sicurezza sociale tipico del welfare novecentesco vedono la scomparsa di “diritti” conquistati a fatica in lotte secolari e ritenuti addirittura come inalienabili Diritti dell’Uomo.La globalizzazione ha prodotto, col suo “liberismo selvaggio”, una società molecolare, “fluida”, nella quale nulla è certo e stabile, i ruoli sono sempre in movimento, ogni forma di sicurezza nella durata è sparita. Per molti si tratta di una conquista: è arrivato il momento - tanto atteso - del trionfo dell’individuo. All’epoca della società di massa si aprì un acceso dibattito tra quanti difendevano quella società così omogenea, segno di progresso e portatrice di benessere e beni materiali diffusi, mentre altri denunciavano la perdita dell’individuo, soffocato nell’anonimo. Per questi, era necessario riconquistare una decisa rivalutazione del singolo, il soggetto nato con l’Illuminismo e portatore della modernità.Ma davvero il mondo contemporeneo è costituito da individui, o non piuttosto l’immagine che se ne dà - anche da parte di accreditati commentatori - è quella di un disgregazione distruttiva, che nega qualsiasi solidarietà, dove il singolo è privo di uno stabile punto di riferimento, persino quello che all’uomo- massa era concesso dal suo conformismo. Stando ai racconti delle cronache sociopolitiche di questi ultimi tempi dovremmo dire che questa immagine è la più veridica: le masse anonime e sottomesse di un tempo, grigiamente ripetitive di se stesse, sono trasformate in volatili raggruppamenti “identitari”, sempre in movimento, carichi di passioni e di violenze, in piena lotta per la “liberazione” dalle catene di una oppressione di cui sono responsabili élites poco o nulla credibili, arroccate nella difesa dei loro privilegi: siano quelli, politici, delle “caste” o quelli determinati dal potere economico, sempre più sfuggente ad ogni controllo legale e sociale. Questa figura non è certo l’Individuo dell’Illuminismo.Si dirà che forme di “rivolta” erano presenti anche nelle società di massa. Ma quelle rivolte apparivano finalizzate alla conquista di nuovi “diritti” che avrebbero migliorato e innalzato lo status del singolo; erano rivolte intese a correggere distorsioni palesi di valori comunque sempre comuni., condivisi. Le rivolte e i movimenti di oggi appaiono non portatori di specifiche ben identificate conquiste, quanto piuttosto espressioni di una insoddisfazione generalizzata, incoerente: la “paura” dell’immigrato è un riflesso condizionato, senza basi reali e controllabili, ecc. Siamo di fronte ad una esplosione di nichilismo di cui ancora non si comprendono i contorni esatti.Raramente, nell’ ambito di una o due generazioni, si è verificato un rovesciamento così grandioso e irreversibile di strutture sociali e di valori. Ma se a descrivere e capire la società di massa novecentesca fu sufficiente una serie di accurate analisi sociologiche, sembra dubbio che a comprendere e governare quanto sta accadendo oggi possano essere validi gli schemi di quella scienza, e non occorra invece l’urgente ripresa di una politica creativa e innovatrice, anche (o soprattutto9 sul piano delle istituzioni. Così come la satira - orwelliana o chapliniana – non sembra possa darci un utile contributo a schiarire nel sorriso le torbide, grigie nubi che gravano sui nostri cieli.