Tanti fili si intrecciano nello scenario politico italiano, ma quello che fa capo ai Cinquestelle è al momento il più aggrovigliato. La scomunica all’indirizzo di Federico Pizzarotti rappresenta il primo, vero, scontro politico all’interno del mondo grillino, e mette in risalto tutte le debolezze e contraddizioni di un Movimento che dimostra di non essere capace di tollerare alcun tipo di dissenso. Mostrando di non essere affatto politicamente uno sprovveduto, il sindaco di Parma sfida il suo stesso partito a un confronto pubblico sulla sua vicenda in una assemblea del gruppo parlamentare: la richiesta di streaming appare quasi uno sberleffo a chi lo accusa di non essere stato trasparente. Il perentorio no che arriva dallo stato maggiore grillino è spia di un imbarazzo che non sarà facile spiegare a iscritti e simpatizzanti.Non solo. Il riferimento fatto da Luigi Di Maio a Grillo quale “garante” per eventuali espulsioni getta sale sulla ferita e invece di semplificarlo complica ancor più il quadro. Primo, perché lo stesso Grillo aveva annunciato di voler fare un passo indietro e invece è sempre lì come un totem monocratico e indecifrabile; secondo, perché seppellisce sotto una valanga di accuse di scarsa o nulla democraticità interna le veementi assicurazioni sulla crescita di un gruppo dirigente forte e credibile, capace all’occorrenza di guidare il Paese. Ma se tutto è Grillo, allora niente è fuori di Grillo. Che poi confonde ancor più le acque continuando a giocare il doppio ruolo di comico e di leader politico. La battuta, ai limiti (e magari oltre) del buon gusto sul sindaco musulmano di Londra, ribadisce che continua a trasformare in comizi i suoi spettacoli e in spettacoli i comizi. Sperando in entrambi i casi di non pagare alcun dazio. Ma se uno dei suoi fosse stato a palazzo Chigi, in che posizione si sarebbe ritrovata l’Italia? La lettura dei quotidiani londinesi che riportano sbigottiti l’accaduto è illuminante.Ma la vicenda grillina può essere presa anche da un altro versante. Quello delle affermazioni di Matteo Salvini secondo il quale se al ballottaggio di Roma andassero la Raggi e il pd Giachetti, la Lega voterebbe per la prima. Lasciamo stare le questioni di etichetta con Giorgia Meloni che pure gioca la sua partita politica, romana e nazionale, appaiata con il Carroccio. Il punto politico è un altro. Riguarda il disvelamento ufficiale della strategia del capo leghista che da un lato afferma di voler contribuire a recuperare a unità il centrodestra e dall’altro si spende per un candidato Cinquestelle che è l’esatto contrario della posizione berlusconiana. Poiché l’ex Cav sulla sponda grillina non approderà mai, l’affondo salviniano testimonia che quello rivolto a Berlusocni di essere cedevole verso Renzi - e giustificare così il mancato accordo su Roma e tanti altri candidati - non è un addebito quanto piuttosto un auspicio. Fa risaltare il malcelato desiderio del Carroccio affinché l’abbraccio del Nazareno si riproponga quanto prima in modo da fidelizzare definitivamente la fetta di elettorato forzista delusa e confusa, facendo diventare la Lega come e più di ora la calamita giusta per attrarre consensi ex moderati.Però anche qui: non basta. C’è altro nella sortita salviniana. E cioè la saldatura possibile di un fronte anti-sistema con i pentastellati e diverse forze populiste, capace di diventare maggioranza nel Paese ed espugnare - per esempio già nel prossimo tornante d’autunno del referendum costituzionale - il fortino del Palazzo in mano al Pd e ad i suoi alleati.Un disegno che poggia sulle spinte antieuropee che si esprimeranno nella Brexit nonché sul disamore e l’insofferenza degli italiani per le forze politiche tradizionali. C’è tuttavia un grosso ostacolo sul cammino - parallelo benché ancora sottotraccia - di Salvini e M5S. Si chiama Silvio Berlusconi. Intanto perchè la mossa FI di Roma su Marchini impantana la macchina da guerra salviniana, rischiando di scipparle un ballottaggio ritenuto scontato. Poi perchè Berlusconi, nonostante le tante sirene contrarie, è saldamente ancorato sul no al referendum. Il che priva Salvini e Grillo della titolarietà esclusiva dello schieramento anti-renziano. E infine perché il Nazareno 2.0 stavolta dovrebbe celebrarsi sulle macerie di Renzi, sconfitto nelle urne e costretto ad un brutale passo indietro peraltro da lui stesso evocato, mentre la prima stesura aveva un carattere opposto, di ripescaggio dell’ex Cav come contraente di un accordo istituzionale. Se il premier va gambe all’aria, le forze anti-sistema sicuramente riceveranno un impulso forte ma altrettanto sicuramente diventerà difficile per il capo dello Stato assecondare quella deriva. Se riuscirà a mantenere un consenso a due cifre, obiettivo non scontato ma tutt’altro che impossibile, Berlusconi potrà al dunque sedersi al tavolo della trattativa per un nuovo governo tornando ad indossare i panni dello statista. E avendo preventivamente avuto cura di far mettere nello sgabuzzino la sedia destinata al focoso ex alleato leghista. Insomma se Renzi vince il referendum, la strategia anti-sistema di Grillo e Salvini subisce un brusco (e definitivo?) stop. Se perde, il dividendo politico maggiore lo intascherà Berlusconi.