Senna e Prost. Ayrton e Alain. Una rivalità che ha segnato la carriera di entrambi, fino ai fuochi d’artificio che vi furono quando si trovarono compagni di squadra, alla McLaren.Ma sarebbe ingiusto verso Ayrton, e forse anche nei confronti dei risultati del Professore, che ha ottenuto ben più di quanto gli consentisse il talento, metterli a confronto. Tra di loro passava la stessa differenza che nel calcio intercorreva tra Michel Platini e Diego Armando Maradona: uno era ordinato, capace, anche elegante. L’altro aveva un talento divino, la palla sembrava una sua appendice, rendeva ogni tocco una poesia. Ecco, Alain guidava, Ayrton invece volava su quelle monoposto. Prost disegnava le curve col compasso, Ayrton ne inventava di nuove.Si sono odiati i due. Si sono tolti un mondiale l’uno, con manovre che fanno sembrare il caso Rossi-Lorenzo-Marquez dispute tra bimbi capricciosi. Si sono fatti la guerra. Fino a Imola.Il brasiliano era atterrito dalla morte di Ratzenberg del sabato, l’ultimo nelle qualifiche, in tutte le gare del 1993, seguita al decollo di un giovane Barrichello con la Jordan, incredibilmente illeso. Aveva una premonizione. Era morto l’ultimo e lui, il primo, il migliore, quel giovane uomo baciato da un talento unico si era messo una bandiera austriaca nell’abitacolo per sventolarla in caso di trionfo. Ma per la prima volta, poco prima della partenza, mise il casco sulla monoposto, appoggiando la nuca proprio sul punto che poi avrebbe visto uscire il braccio meccanico che lo avrebbe ucciso. Era agitato, malinconico. Distratto, nonostante la 65ima pole position e forse la possibilità di cambiare verso a una stagione che lo aveva visto iniziare favoritissimo, per vedersi superato dal giovane Schumacher. La Williams, che lo aveva battuto negli ultimi anni grazie a un’elettronica infallibile, era un cavallo imbizzarrito senza l’aiuto di quest’ultima. Si era rabbuiato Ayrton: non la solita malinconia che lo rendeva sexy per le donne e un fratello sensibile per gli uomini. Quello sguardo che gli era valso l’affetto di un paese intero, il Brasile, che lo trattava come un figlio. No, si era spento qualcosa in lui. Forse non trovava più dentro di sé il motivo per rischiare la vita, lui che da sempre aveva lottato per la sicurezza. Ed era quello che meno ne aveva bisogno: volava sul bagnato, come sa quel Prost che a Montecarlo, nel Gp del Principato di Monaco, mentre quel ragazzo di Santana, distretto a nord di San Paolo, stava dando spettacolo, fece fermare la gara. Per motivi di sicurezza, appunto, diceva il francese. Per impedire che lo battesse con la piccola Toleman, in verità. Il primo anno di un conflitto che segnò la Formula 1 degli anni ’80. Ma a Imola, appunto, Alain era fuori da giochi e commentava. Ayrton, senza saperlo (o forse sì), era all’ultima gara. E per un canale francese, il paulista si lasciò andare a un messaggio affettuoso “un saluto speciale al mio caro, il nostro caro amico Alain Prost. Ci manchi molto”. Il rivale, il nemico. Il compagno. Senza il suo opposto, Senna si sentiva perso. Non era la sua Formula 1, quella degli anni ’90, drogata da regole complicate e dalla meccanica che soffocava il pilota e il suo valore. Un grande campione si misura sul valore dei nemici e lui aveva perso i suoi.Ma Ayrton a noi non piace ricordarlo con la testa che si reclina sulla spalla. Senza vita. In quell’incidente insensato e atroce, in quei metri in cui gli chiedevamo di frenare. Ma lui non poteva: aveva chiesto una modifica al piantone dello sterzo per rendere più comodo l’abitacolo. I meccanici della Williams lo fecero, saldandolo male nella notte tra sabato e domenica. Saltò, mentre teneva testa al giovane Schumacher. E finì contro la sua testa, dentro. Il corpo, illeso. Neanche una frattura. Un paio di lievi contusioni. Quando arrivò in ospedale, in elicottero, “sembrava dormisse”, diranno in molti. E la beffa era che lui, quel giorno, non voleva correre.Ecco, a noi piace ricordarlo quando voleva correre. Sempre, al massimo, cercando l’impossibile. Come quel mitico Interlagos – raccontato meravigliosamente dal film Senna del premio Oscar Asif Kapadia - che lo consegnò alla leggenda. Era il 24 marzo del 1991, il pilota più grande, quello che ha vinto e fatto giri veloci come solo Fangio e Ascari (in proporzione ai gp disputati), incredibilmente non aveva mai trionfato in casa. Solo un secondo posto ai tempi della Lotus.Sta per vincere il suo terzo mondiale. E’ forse la sua migliore stagione. Ma la sua ossessione è vincere per il Brasile, per i brasiliani. Piove, succede di tutto. Ma al gran premio arrivano in centinaia di migliaia, una sorta di Woodstock della Formula 1. Domina, Senna. Mansell consuma la macchina cercando di tenerne il ritmo. Patrese rimane a 30-40 secondi. Berger amministra. Ma per il figlio di San Paolo, borghese e intellettuale, nulla è andato liscio su quella monoposto, nei momenti decisivi. E così, al 60° giro, salta la quarta marcia. Allarme, ma nulla di grave, basta saper usare il cambio. E lui non solo sa usarlo, ci parla. Ma nel giro di tre giri saltano tutte, tranne la sesta. E lui ha una dozzina di giri da affrontare così. Finirà disidratato, con i crampi, senza riuscire per diversi minuti a mettersi in piedi. Sul podio è provato. Alla radio, con i suoi, piange di gioia e forse di dolore, i tre mondiali non gli hanno dato quella felicità: quel bagno di folla lo rivedremo solo al suo funerale. Piangevano i brasiliani, in entrambi i casi, ma quant’erano diverse quelle lacrime. Questo era Senna, l’uomo che ha creato una fondazione benefica grande quanto una multinazionale, che salva migliaia di bambini all’anno. L’uomo che ha avuto storie d’amore con le donne più desiderate. L’uomo che se n’è andato prima di guidare la Ferrari: si sono sempre corteggiati senza fidanzarsi mai. Non era uomo da legami, se non con la madre, di cui prese il cognome (più originale del Da Silva paterno) e con la sorella che ancora ora ne difende la memoria ed a capo della fondazione.Senna era il migliore. Oltre i numeri. Oltre le vittorie. Oltre i campionati del mondo. Con Ayrton i motori non facevano rumore. Suonavano. Le gomme non si consumavano, disegnavano traiettorie. E il volante era un’appendice, come per il Pibe la palla. Nessuno ascoltava e capiva le monoposto come lui. Ne sapeva più dei meccanici. Soprattutto quelli della Williams. Purtroppo.(dedicato a Elisabetta Pagani, la sua più grande tifosa)