È possibile, forse probabile, che la missione russa di Salvini si traduca nell'ennesimo boomerang oltre che in un pio ma inesaudito desiderio. Per l'ennesima volta il leader della lega sembra proprio aver sbagliato i modi e i tempi di un'operazione potenzialmente vincente, se fatta con la dovuta cura. Gli era già capitato altre volte ma soprattutto nel celebre e sciagurato caso del Papeete. Nell'estate del 2019 la rottura se non con i 5S almeno con il premier Conte era nell'ordine delle cose, inevitabile dopo che il premier aveva portato i 5S a votare per Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea senza consultare l'alleato e anzi cercando con successo di escluderlo dalla manovra.

Il problema per un leader della Lega che in quel momento volava altissimo nei sondaggi era solo scegliere con attenzione il momento della crisi, le modalità con le quali arrivarci, la rete di alleanze che gli garantisse di arrivare al voto una volta disarcionato Conte. Salvini si mosse nel modo più sgangherato che si possa immaginare, aprendo una crisi che agli occhi degli elettori appariva incomprensibile, oscillando tra dichiarazioni opposte, senza essersi premurato prima di non correre il rischio di una nuova maggioranza. L'esito è noto e di lì in poi la discesa del Carroccio è stata vertiginosa.

Maneggiare una materia delicata ed esplosiva come la guerra in Ucraina e i rapporti con Putin, tanto più per un leader che a Putin è stato più di ogni altro politicamente vicino negli anni scorsi, richiedeva talento diplomatico e capacità di equilibrismo molto maggiori della missione, peraltro fallita, del Papeete. La posta in gioco poteva effettivamente essere molto alta, sino a rilanciare l'immagine oggi più che usurata di Salvini come leader capace di andare oltre il comizio e la propaganda. Ma per raggiungere un così ambizioso obiettivo il leader della Lega avrebbe dovuto muoversi con il beneplacito, magari tacito e discreto, di Draghi. Avrebbe potuto ottenerlo solo potendo squadernare possibilità di successo reali, avendo cioè già avviato un lavoro diplomatico del quale non si è riscontrata invece traccia.

Al contrario, Salvini è apparso allo stesso tempo pressapochista, interessato principalmente alla resa d'immagine propagandistica, quasi manovrato da Mosca, privo di qualsiasi appoggio persino nella sua coalizione e quasi anche nel suo partito. A questo punto la retromarcia, non ancora ufficializzata, è quasi inevitabile e dalla vicenda il leghista uscirà ancor più ammaccato di prima. Al contrario della sua rivale all'interno della destra che, almeno sul piano dell'immagine, non sbaglia un colpo. Ieri, negando l'evidenza, ha assicurato di non aver mai voluto criticare l'iniziativa di Salvini.

Precisazione resa necessaria dagli umori della base del centrodestra, in stragrande maggioranza contrari all'invio delle armi all'Ucraina. La leader di FdI deve insomma mantenere una parvenza di equilibrio tra le posizioni degli elettori del centrodestra e la necessità di accreditarsi in Italia e soprattutto fuori Italia con un atlantismo tanto granitico da far dimenticare i peccati d'origine: le radici missine, il populismo, il sovranismo anti Ue. La seconda esigenza fa però premio su tutto il resto. Giorgia Meloni è consapevole di non aver affatto la strada per palazzo Chigi spianata neppure in caso di netta vittoria elettorale e sminare almeno in parte quel percorso di guerra è la sua prima necessità.

Di fatto la situazione del centrodestra presenta quindi aspetti quasi paradossali. Sulla guerra, cioè sul fronte che è oggi più di ogni altro centrale, Salvini è in sintonia con la base di destra ma non riesce a capitalizzare quella sintonia perché, per quanto possa abbondare in dichiarazioni frondiste, non ha la forza di tradurle in gesti concreti, come già nei mesi delle chiacchiere a vuoto contro il Green Pass. Meloni, che nella sostanza fa da puntello al governo, almeno sul tema della guerra, continua invece a crescere nei consensi grazie a un lavoro d'immagine tanto semplice quanto efficace: imporsi come leader dotata del dono più raro nella politica italiana di oggi: la coerenza.