Un colpo al cerchio e uno alla botte. È questa la strategia del segretario del Pd, Enrico Letta, da qui ai prossimi mesi, quando, da un lato, ci sarà da consolidare l’alleanza con il Movimento 5 Stelle, che l’ex presidente del Consiglio non sembra per nulla voler accantonare, e, dall’altro, da guardare con attenzione ai movimenti al centro che potrebbero far confluire alcune sigle nel campo largo in vista delle Politiche del 2023. Con tre interlocutori, Giuseppe Conte, Matteo Renzi e Carlo Calenda, che sono agli antipodi e che non sarà facile far sedere allo stesso tavolo.

Ma Letta, rivitalizzato dalla rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale, sembra comunque volerci provare, pur avendo ribadito nella direzione del partito di lunedì che l’alleanza politica con il Movimento «dura e durerà». Anche perché in quella direzione il “nipote d’arte” ha posto l’accento su alcuni temi cari ai pentastellati che anche i dem proveranno a fare loro, a partire dal salario minimo. «Mi fa piacere che Letta ne abbia parlato - ha detto il leader M5S, Giuseppe Conte - è l’occasione per sgomberare il campo da dubbi e convergere sul nostro ddl che è già incardinato in Senato».

L’avvocato di Volturara Appula ha spiegato che è ora di passare «tutti dalle parole ai fatti» per «dare una risposta degna alla precarietà del lavoro». Questione anch’essa cara al Pd, che ai tempi della formazione del governo Draghi insistette non poco per ottenere il ministero del Lavoro con Andrea Orlando, dopo due esecutivi in cui era a guida M5S, con Luigi Di Maio prima e Nunzia Catalfo poi.

Certo Letta dovrà fare i conti con un Movimento ai minimi storici, il cui consenso si aggira sotto al 15 per cento e i cui vertici sono al momento sospesi dal Tribunale di Napoli in attesa del ricorso presentato da Conte e che verrà discusso martedì prossimo. Diverse anime del partito, da AreaDem del ministro della Cultura, Dario Franceschini, a Base Riformista del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, continuano il pressing sul segretario affinché si stacchi dall’abbraccio grillino per esplorare nuovi orizzonti. Ma al momento il segretario tira dritto, punta al colpo grosso alle Politiche («chi vuole il pareggio resti in panchina», ha detto in Direzione) ed è convinto che la partita sarà tra il centrosinistra da un lato e il centrodestra a trazione sovranista dall’altro.

E qui entra in gioco il riformismo di Carlo Calenda, che punta a mettere i bastoni tra le ruote a entrambi, ma che fino all’ultimo tenterà di convincere Letta a emanciparsi dal Movimento. Per ora il capo del Nazareno, come ha ribadito il leader di Azione, «ha fatto una scelta chiara», cioè Pd- M5S- Leu, da un lato, e Lega, Fd’I e Forza Italia, dall’altro. «Rispetto a queste due offerte - ha sottolineato Calenda noi dobbiamo costruirne un’altra fondata non sul campo centrista ma che cercherà di affermare una cultura di governo e prendere i voti su questo».

Per Letta dunque non sarà facile trovare una via di mezzo tra la necessità di non perdere i voti del Movimento in coalizione e la curiosità di esplorare una terza via che porti a un rinnovato centrosinistra. Qualche segnale, in questa direzione, è per la verità arrivato ieri in Aula al Senato, quand’era in discussione il conflitto di attribuzione sul caso Open che coinvolge Matteo Renzi.

Il leader di Italia viva, dopo aver annunciato che avrebbe fatto «scoppiare il Senato» con il suo discorso, che poi è risultato come previsto tutto incentrato sul garantismo e il rispetto delle prerogative parlamentari, ha ottenuto l’appoggio del Pd, oltre che del centrodestra, come già accaduto in commissione. Fatto tuttavia non scontato, visto che poche ore prima Conte aveva annunciato il voto contrario del Movimento «per non tradirne i principi fondativi» ed era stata messa sul tavolo l’ipotesi di un voto contrario anche da parte dei dem, per non spaccare lo schieramento. Ma l’ufficio di presidenza del Gruppo Pd ha tirato dritto per la strada garantista, lasciando i grillini con l’amaro in bocca.

Poco più di un’ora dopo dal Nazareno è arrivata una nota per illustrare il piano che prevede di riportare in Aula dal 27 aprile, quando scadrà la “tagliola”, il ddl Zan, tema caro anche al M5S. Un colpo al cerchio e uno alla botte, come nella migliore tradizione democristiana.