Le vittorie sono sempre vittorie, a maggior ragione se si è freschi di sconfitta e si è temuto il bis. Però alcune vittorie cementano, altre lacerano e quella del centrodestra in Abruzzo rientra in questa categoria. O almeno, nella migliore delle ipotesi, indica il rischio che in quella situazione di travaglio la coalizione possa finire molto presto. In pochi mesi, dopo le elezioni europee e piemontesi accorpate nell'election day.

Salvini, fedele alla strategia mediatica che ha adottato da un pezzo, fa finta di niente, festeggia il brillante successo anche se nei risultati della sua Lega c'è ben poco che luccichi. Giorgia Meloni subodora il rischio e prova a metterci una pezza subito: «Non importa quanto un campo sia largo ma quanto sia unito». Un avvertimento a evitare incrinature che travolgerebbero tutti. Ma l'incrinatura c'è già e in buona misura spetterà proprio alla leader della coalizione evitare che si approfondisca. Compito però per nulla facile.

In termini di voti il risultato del Carroccio è meno desolante del temuto. Che la situazione fosse sideralmente distante da quella di cinque anni fa si sapeva: il crollo dei consensi rispetto ai trionfi del 2019 era di fatto già stato digerito. Gli ultimi sondaggi riservati facevano temere esiti anche più disastrosi, con la Lega precipitata intorno al 6 per cento e forse persino al di sotto. In un certo senso il sospiro di sollievo di Salvini non è del tutto bugiardo. Ma in termini politici la catastrofe è completa.

Antonio Tajani, leader sul quale pochi mesi fa nessuno scommetteva un soldo, è riuscito a risollevare le sorti di un partito sulla cui sopravvivenza, dopo la scomparsa del fondatore e sovrano, sarebbero stati anche meno quelli disposti a puntare. Invece Forza Italia è viva, in salute migliore rispetto a un paio d'anni fa, e decisamente lanciata: nelle urne ha quasi doppiato la Lega.

Gaetano Quagliariello, uno che se ne intende, fa capire che l'exploit azzurro è in buona parte dovuto a “liste fortissime”, insomma alla capacità di arruolare una parte influente del notabilato locale. È probabilissimo che abbia ragione ma ciò conferma solo l'impostazione che Tajani sta dando a un partito che sa non poter essere più quello di Silvio Berlusconi, al quale dedica la vittoria e lo fa sinceramente. Berlusconi è inimitabile, però, e la Fi di Tajani sa di dover essere una partito compiutamente centrista, ricalcato per quanto possibile sul modello della vecchia Dc, che con i notabilati sapeva come trattare.

Il successo di Fi, se confermato nelle prossime prove, modifica l'intera geografia politica del centrodestra. La maggioranza di governo non è già più l'alleanza tra due destre, divise in fondo solo da sfumature pur se sensibili, con una ruota di scorta centrista al traino. Promette di essere, se le elezioni europee confermeranno il test abruzzese ma anche il segnale dei sondaggi, una creatura due gambe: i Conservatori di Giorgia Meloni, di destra ma ben attenti a mostrarsi affidabili a livello europeo e internazionale, e i Moderati di Tajani, espressione diretta del Ppe, strutturalmente diversi dal FdI e dunque capaci di parlare e attrarre un elettorato diverso, ma solidamente alleati dei Conservatori.

In questa nuova disposizione del centrodestra italiano ed europeo per la Lega di Salvini, forza nazionale in diretta competizione con FdI non c'è alcun posto. C'è spazio in abbondanza ma per una forza locale e fortemente concentrata territorialmente, determinante ma articolata come rappresentanza di interessi più che come partito ideologico e potenzialmente “piglia-tutto”. Una partito se non identico almeno simile alla Lega delle origini, quella che Salvini ha cercato però in tutti i modi di rottamare.

Da questo punto di vista il compito della premier, in sintesi ricomporre una coalizione con fisionomia diversa da quella che ha vinto le elezioni meno di due anni fa, sarebbe più semplice con un cambio della guardia ai vertici del partito alleato che sostituisse “il Capitano” con i leader del nord tornati a tutti gli effetti azionisti di maggioranza in via Bellerio.

Da altri punti di vista, però, un ribaltone nel Carroccio renderebbe la vita più difficile a una Meloni decisa a impossessarsi anche del Nord e in particolare del Veneto, un'ambizione che senza doti diplomatiche che sin qui Giorgia Meloni non ha mai mostrato sarebbe destinato a creare una divisione difficilmente sanabile proprio con quei leader del nord. Senza contare l'indisponibilità di Salvini a passare la mano e la possibilità di resistere al congresso grazie all'occupazione, negli anni e nei mesi scorsi, di tutte le posizioni chiave nel partito.

Insomma, Giorgia ha vinto e lo ha fatto nettamente. Ha spalmato un unguento miracoloso sulla ferita sarda ed esce benissimo dal test abruzzese anche per la batosta subìta sul fronte opposto dal leader che non vuole ritrorvarsi come diretto avversario, Giuseppe Conte. Però nei prossimi mesi dovrà tirare fuori le doti di una leader di coalizione in fase di mutamento genetico. O dovrà trovale se, come tutto indica, ancora non ne dispone.