«Note in tema di prescrizione e di efficienza del processo», a cura di Francesco Trapella, avvocato e titolare di un laboratorio sulla violenza di genere all'Università di Chieti- Pescara, è la seconda puntata - dopo quella intitolata «Riforme, statistiche e altri demoni» con una intervista alla professoressa Cristiana Valentini di un approfondimento che la rivista giuridica Archivio penale sta portando avanti in tema di riforme. Se, numeri alla mano, la maggioranza delle prescrizioni arriva davanti ai gip e ai gup perché la riforma Cartabia ha toccato l'appello?

La recente riforma del processo penale ha messo mano all'appello, come se il problema delle prescrizioni alloggiasse in quella fase. Lei ritiene che non sia così. Perché?

La riforma Cartabia, come le precedenti Bonafede e Orlando, punta l’accento sui tempi dei giudizi di appello. Leggendo le dichiarazioni di chi, in Parlamento, promuoveva quegli interventi normativi viene esaltato il dato che, in un caso su quattro, le corti di secondo grado dichiarano la prescrizione e che tanto favorisce l’impunità di chi tenta di guadagnare un proscioglimento sfruttando l’affanno degli uffici distrettuali, a discapito dei più elevati principi di giustizia consacrati nella Costituzione. Eppure, se confrontiamo i numeri delle prescrizioni dichiarate nelle varie fasi del rito penale, ci si accorge che il fenomeno si presenta in modo senz’altro maggiore durante le indagini o nel corso del primo grado.

Ci può spiegare bene: in quale fasi avvengono le maggiori prescrizioni?

Esaminando il periodo tra il 2014 e il 2020, le sezioni Gip/ Gup dei tribunali hanno dichiarato una percentuale oscillante tra il 46% del 2019 e il 62% del 2014 di tutte le prescrizioni pronunciate nel Paese; per le sezioni dibattimentali del primo grado il valore è compreso tra il 19% del 2014 e il 27% del 2020; la restante parte – più o meno il 25% - spetta alle corti d’appello. E il dato conferma il trend del periodo precedente: basti pensare che nel 2004 l’ 87% delle prescrizioni fu dichiarato dalle sezioni Gip/ Gup e solo il 4% dalle corti di secondo grado. Insomma, è da vent’anni almeno che la maggioranza delle prescrizioni occorre davanti ai giudici delle indagini o dell’udienza preliminare.

Questi dati come si spiegano e cosa ci dicono?

Questi dati riflettono un quadro di sostanziale inefficienza che deriva dalla gestione delle indagini; è lì che si registrano ritardi importanti, che poi vengono ereditati dalle sezioni Gip/ Gup e dibattimentali, aggiungendosi alle criticità da cui, a propria volta, sono afflitte. L’obbligatorietà dell’azione penale impone di perseguire tutto; esistono, poi, prassi capaci di allungare i tempi: se una notizia di reato viene iscritta a mod. 45, può rimanere lì a tempo indeterminato e i termini per il compimento delle indagini iniziano a decorrere se e quando la notizia passa a mod. 21; trasferimenti, aspettative e collocamenti fuori ruolo dei magistrati, poi, riducono gli organici senza la certezza di un immediato turnover.

 

Quindi non è colpa degli avvocati presunti azzeccagarbugli se i processi sono lenti?

Direi di no. Nel 2019 una ricerca Ucpi rilevava come una delle più frequenti cause di rinvio fossero i vizi di notifica. Se lei immagina un procedimento in cui ad un paio di difetti di questo tipo, magari occorsi in udienza preliminare, si aggiungono due o tre congedi dei giudici dibattimentali affidatari del fascicolo, la prescrizione occorre senza che il difensore abbia assunto iniziativa di sorta. I rinvii e le lungaggini determinate dall’inefficienza degli uffici non sono mai addebitabili all’imputato. Peraltro non si dimentichi che la richiesta di un rinvio proveniente dalla difesa sospende il termine prescrizionale, quindi direi che le iniziative difensive hanno pochissima parte nel fenomeno di cui stiamo parlando.

In base a quello che lei ci sta dicendo, abbiamo fatto una riforma partendo dal presupposto sbagliato. Come è possibile?

Non una, ma almeno tre. E mi fermo agli ultimi cinque anni. Quel che è mancato è stata una visione organica del fenomeno processuale; si sono preferiti piccoli ritocchi e si è diffusa l’illusione che efficienza significhi tempi brevi a tutti i costi, anche a detrimento delle difese. Si è fatto leva su un sentimento “di pancia”, dell’uomo qualunque che vuole la testa del colpevole, sempre e comunque. Perché un colpevole deve esserci. Salvo rendersi conto di quanti e quali siano i problemi non appena, per ventura, sia coinvolto nel complicato meccanismo della giustizia penale, sia come accusato che come vittima.

Qual è la lezione che l'equivoco delle ultime riforme dovrebbe lasciare alla politica?

Probabilmente sarebbe stato bene, anzi sarà bene in futuro, rivedere l’obbligatorietà dell’azione penale, responsabilizzare la vittima estendendo i reati perseguibili a querela, depenalizzare e decriminalizzare, finalmente prendendo coscienza che non tutto può essere penale, e incentivare la mediazione attraverso la formazione di personale adeguatamente addestrato. Tutto questo richiede risorse che sarà indispensabile investire. Così come altrettanto pressante è il richiamo che giunge dai concorsi per l’accesso alla magistratura o dagli esami per l’abilitazione forense, che evidenziano diffuse carenze nella preparazione dei più giovani. Come vede, le questioni sono tante e tutte necessarie a garantire una giustizia di qualità.

Ma quest'ultima riforma penale migliorerà o no il sistema giustizia?

Sicuramente ci sono degli spunti interessanti, ma la sensazione è che si fraintenda ancora il concetto di efficienza. Anche l’improcedibilità in appello, al di là del dibattito sulla sua legittimità costituzionale, è una sorta di resa dello Stato dinanzi ad un processo inefficiente. Penso che sarebbe meglio indagare realmente le criticità del sistema e intervenire su di esse. Per esempio, nella riforma non c’è nulla che possa arginare le prassi di cui parlavamo, dell’iscrizione a mod. 45 o dell’avvio dell’inchiesta contro ignoti, magari per compiere attività che richiederebbero l’intervento delle difese senza, però, coinvolgerle. La riforma tace poi sull’organizzazione degli uffici dibattimentali: la soluzione ai frequenti cambi di giudice in corso di processo è stata individuata dalla giurisprudenza nel permettere al giudizio di proseguire indisturbato, senza permettere al nuovo giudice di acquisire le prove, con l'idea che debba accontentarsi dell’attività svolta dal predecessore. Ma io, come difensore, vorrei che a decidere fosse chi avesse seguito tutto il processo: è il principio di immediatezza, molto banalmente. Come vede, i temi sono tanti e sono tutti collegati: per dare risposta alla domanda di efficienza e di qualità nella giustizia bisogna prenderli tutti in considerazione, senza piccoli interventi qua e là, ma con una visione di insieme del procedimento penale, delle sue funzioni e delle sue attuali debolezze.