La strategia politica non è come il coraggio di don Abbondio: chi non ce l'ha può comunque cercarla e trovarla. Il Pd di Nicola Zingaretti non lo ha fatto, o comunque per ora non ci è riuscito. Il segretario ha fissato un'asticella relativamente bassa per le prossime elezioni europee, il 20 per cento. È un’indicazione prudente e realistica che gli permetterà di gridare al trionfo se quella soglia verrà superata anche di un paio di punti, eventualità non troppo irrealistica. Il 20 per cento, comunque, basterebbe per rivendicare a buon diritto una sia pur contenuta inversione di tendenza. Renderebbe evidente che il partito di Zingaretti, comunque in lizza con M5S per il secondo posto, è una realtà presente nell'agone politico.

Il problema è che Zingaretti sembra non avere intenzione di spendere questo risultato in alcun modo. Bersaglia, come è ovvio, il governo gialloverde. Ma ove lo sciagurato esecutivo cadesse, come si dice certo che succederà presto, non offre alcuna alternativa allo scioglimento delle camere e alle elezioni anticipate. «Il Pd siederà in maggioranza solo dopo eventuali elezioni. Il giusto atteggiamento è tornare alle elezioni senza mettere in piedi governi tecnici», ha ripetuto nell'intervista di ieri al Corriere della Sera.

Una decina di giorni fa il presidente del Partito, Paolo Gentiloni, ha ribadito più volte nella stessa intervista che un’intesa col M5S non è ipotizzabile «con questo Parlamento». E il tentativo del capogruppo Delrio di aprire un'interlocuzione con i 5S su singole proposte di legge è stata fucilata a stretto giro dalla minoranza renziana e poi bocciata dal segretario.

È evidente che escludere qualsiasi ipotesi di nuova maggioranza in caso d crollo di quella gialloverde e rifiutare anche solo il dialogo di merito su temi specifici significa non solo non lasciare altra alternativa al governo Lega- M5S se non le elezioni anticipate, ma anche aver già deciso di affrontare quelle elezioni da soli.

O meglio con quella «lista unitaria», secondo il modello da Macron a Tipras, che Zingaretti spaccia per novità epocale e che invece è solo una riproposizione fuori tempo massimo dell'Ulivo o dell'Unione. Con una differenza non secondaria: allora esistevano forze politiche di qualche rilevanza con cui il partito maggiore, prima Pds, poi Ds, potesse allearsi.

Oggi non è così. Anche sorvolando sull'impossibilità di mettere insieme tutte i micropartiti dell'area del centrosinistra, il risultato non andrebbe oltre un Pd appena allargato. Di fatto, e ipocrisie a parte, la scelta del segretario del Pd è doppia e non è affatto diversa, nella sostanza, dall'immobilismo più volte e giustamente rimproverato a Renzi: non lasciare nessun spiraglio a ipotesi di maggioranza diversa in questa legislatura, il che per inciso non può che ritardare le elezioni che Zingaretti afferma di volere prima di subito, e dare già per acquisita la sconfitta nelle prossime elezioni e un conseguente governo di destra senza più i 5S. A quel punto, ci si potrebbe anche alleare. All'opposizione.

Dietro la facciata della «lista unitaria» Zingaretti ha dunque scelto di restare immobile, e di abdicare sia all'ambizione di tornare presto al governo sia all'obbligo di fare politica. Le ragioni di questa frenata, che sta vanificando in tempi brevissimi la spinta delle primarie e del ricambio a vertici del Nazareno è evidente. Zingaretti è ostaggio della minoranza renziana, che nei gruppi parlamentari e specialmente al Senato è fortissima. Sa che quella minoranza è acquattata ma pronta all'offensiva sia in caso di risultato elettorale deludente il 26 maggio sia, comunque, a fronte di qualsiasi apertura all'M5S. Dunque punta a ridimensionare i rapporti d forza, sia con la minoranza all'interno del partito e nei gruppi parlamentari, sia con i 5S perché un’alleanza non sarebbe possibile senza un drastico ridimensionamento del Movimento rispetto al trionfo del 2018.

Però una strategia che fa perno sugli equilibri del partito più che su quelli del Paese e che si basa su tempi lunghissimi in una fase politica che vede invece tempi tanto accelerato da rendere un esercizio di pura fantasia scommettere su un futuro significa oggi condannarsi non solo al minoritarismo ma anche all'infinluenza. Col rischio che il capitale di fiducia e di attesa investito nella nuova segreteria vada dissipato ancora prima delle prossime elezioni politiche.