Non entro nel merito delle opzioni referendarie. Ma l'utilizzo retorico del mito della Carta Costituzionale del '46 messo in atto da entrambe le parti in vista del referendum ha qualcosa di stonato, di fuorviante e di pretestuoso. Qui ci si confronta, infatti, sul testo di legge costituzionale che propone il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione. Poi, in particolare, il provvedimento introduce una radicale riforma del Senato della Repubblica. Questa è la partita, non altra. E il cosiddetto combinato disposto con la legge elettorale non c'entra poi proprio nulla. Un nuovo meccanismo di voto lo si potrebbe infatti sempre trovare, anche dopo l'approvazione del nuovo assetto istituzionale. Così come, una volta introdotte le riforme - e forse "rotto" il tabù dell'immobilismo istituzionale - nulla esclude che tra qualche tempo si possono di nuovo riformare in Parlamento o con un'eventuale Assemblea costituente. Si può, insomma, essere o non essere d'accordo con le novità introdotte dalla legge, ma impostare la campagna referendaria sull'attentato o sulla difesa della Costituzione del '46 è proprio fuori luogo.Oltretutto, che gli avversari di queste riforme si appellino - tutti o quasi - alla coerenza con la Carta Costituzionale del 1946, di cui le innovazioni della legge Renzi-Boschi ne costituirebbero uno stravolgimento palese, fa emergere solo l'incoerenza di percorso politico di quasi tutti gli aderenti a questo schieramento. Dove stranamente si ritrovano, insieme, tra gli altri: i pentastellati, che dovrebbero essere estremamente sensibili all'abbattimento dei costi della politica; i leghisti, eredi di quel Gianfranco Miglio che - con il Gruppo di Milano - fu uno dei primi a proporre il cambiamento della nostra vecchia Costituzione; destrorsi di varia provenienza, a loro volta anche loro eredi di vari filoni (Pacciardi, Maranini, il Msi di Almirante) che avevano fatto della nuova Costituzione il loro cavallo di battaglia; infine, ex diessini dalemiani, i quali hanno ritrovato anche un leader che a suo tempo presiedette una Bicamerale finalizzata alla riscrittura della Carta costituzionale.Sull'altro versante, d'altronde, ritroviamo gli eredi di forze politiche come la Dc e il Pci, e molti liberali, i quali nel corso della Prima Repubblica sono stati gli alfieri dell'intoccabilità della Costituzione del '46. E c'è da notare che anche da questo schieramento comunque, si tende retoricamente a sottolineare che si tratta solo di alcuni ritocchi alla seconda parte della nostra Carta, la quale resta inalterata nello spirito e anzi diventerebbe, con questi aggiornamenti, di maggiore attuazione.In questa confusione, ciò che è scomparso dall'orizzonte, almeno dal nostro personale punto di vista, è il riferimento alla natura intrinsecamente "costituente" (quindi partecipata e propositiva) dell'attività politica in quanto tale, non solo di eventuali assemblee a ciò preposte con un mandato temporale oppure di processi referendari.D'altronde, in Italia, in particolare a partire dagli anni 70, sul termine "Costituzione" aleggia una confusione che ha progressivamente trasformato il suo significato in una specie di feticcio ideologico teso a proporre come immutabile e addirittura irriformabile l'assetto politico-istituzionale scaturito dal processo costituente 1946-48. Quasi nessuno ha infatti rilevato, come si sarebbe dovuto fare, che qualsiasi Costituzione è soprattutto l'enunciazione di principi generali (e costituenti) che salvaguardano la libertà dei cittadini più che un assetto istituzionale dato come indiscutibile una volta per tutte. L'ultimo paradosso è che, nello scenario dei nostri giorni, alcune forze politiche - quelle caratterizzate da un giacobinismo di fondo - si appellano al testo della Costituzione repubblicana concependolo come una sorta di riferimento quasi sacro. Di contro, rispetto alla presunta difficoltà di modernizzare il sistema, le forze di governo, a intermittenza, da anni reclamano invece la necessità della ri-scrittura della seconda parte della nostra Costituzione con lo scopo di fornire maggiore potere all'esecutivo, tradendo così - anche loro - quel presupposto di qualsiasi processo costituzionale che è poi la limitazione di qualsiasi eccesso (e abuso) di potere.Per rimettere i puntini sulle "i", riferiamoci, correttamente, alla sfera della teoria politica e citiamo Giovanni Sartori: "Il termine Costituzione, che pertiene al costituzionalismo, è - sostiene il decano dei nostro politologi - esclusivamente moderno, e deve essere inteso in un preciso significato garantistico". Siamo d'accordo, ma nel corso del 900 il positivismo giuridico prima e una concezione "formale" di Costituzione poi ne hanno via via deformato il significato e distrutta addirittura la ragion d'essere originaria.Cerchiamo quindi di capire questo concetto attraverso un evidente paradosso politologico: la patria del costituzionalismo, l'Inghilterra, è il Paese che non ha e non ha mai avuto una Costituzione scritta e cristallizzata. Eppure, come è stato più volte sottolineato da tutti gli studiosi, nonostante la Gran Bretagna non abbia una Costituzione scritta, essa è sin dal Medio Evo il luogo politico in cui è stata sancita teoricamente e prevista praticamente la protezione integrale dei diritti fondamentali di libertà dei cittadini. Certo, storicamente, i britannici hanno di volta in volta fatto anche ricorso a documenti scritti che hanno definito rigorosamente i diritti di libertà dei cittadini: le Petizioni dei Diritti del 1610-1628, l'Habeas Corpus Act del 1679, il Bill of Rights e il Toleration Act del 1689. Ma il fatto che questi atti solenni non siano mai stati fusi in un singolo testo scritto e organico non significa affatto che nella prassi politica concreta gli stessi non abbiano definito e inverato una Costituzione materiale, efficace, operativa, aperta alle innovazioni istituzionali.La parola "costituzione" d'altronde viene dal latino constitutio, che a sua volta deriva dal verbo constituere: istituire, fondare, iniziare, cominciare? Che, stando almeno a Machiavelli, coincide con l'avvio, con l'originarsi della stessa prassi politica. Va detto che nell'età di Oliver Cromwell - che sono, va ricordato, gli anni della dittatura del Lord Protettore - in Gran Bretagna si verificarono pure tentativi (non riusciti) di formulare una carta fondamentale scritta, eppure nonostante ciò nessuno dei documenti in questione venne mai chiamato costituzione, semmai covenant, instrument, agreement. Ma quando più avanti si cominciò a parlare di costituzione nel contesto del costituzionalismo teorico, non ci si riferì mai, comunque, alla necessità di un "testo feticcio".Chi cerca le origini del costituzionalismo deve infatti rifarsi alla Magna Charta del 1215 e alle dinamiche scaturite dai suoi principi in senso di costituzione materiale. Quando nell'800 si diffuse ovunque il movimento d'opinione che chiedeva "la costituzione", questo non significava altro che la richiesta di un assetto il quale, come nella consuetudine inglese, garantiva "libertà protette" per ogni singolo cittadino, ovvero un "sistema costituzionale". Vale la pena leggere ancora Sartori: "Sia come sia, una costituzione tutta codificata in un unico documento è soltanto un mezzo. Ciò che realmente importa è il fine, il telos, lo scopo originario del costituzionalismo. E questo scopo comune potrebbe essere espresso e sintetizzato da una sola parola: garantismo". Ovvero, definire una serie di principi costituenti per i quali si delimita qualsiasi tentazione di arbitrarietà del potere e si assicura un governo limitato e controllato: "S'intende che le tecniche del garantismo sono diverse (carte dei diritti o no, controllo giudiziario o meno, separazione dei poteri), ma in ogni caso l'intento e la ragion d'essere sono di assicurare che i cittadini siano protetti e garantiti dall'abuso di potere".D'altronde, è vero: nel corso del '900, come abbiamo già accennato, si è operato un processo di deriva e confusione ideologica. Dal costituzionalismo quale contenuto "costituzionale" di garanzie di libertà e di limitazione del potere s'è passati all'idea di Costituzione intesa come un qualsiasi ordine istituzionale e statuale dato. Soprattutto in Italia, il significato formale ha via via fagocitato l'originaria ed essenziale dimensione garantistica di qualsiasi processo costituzionale e costituente. Lo ripetiamo: in senso proprio e politologicamente corretto, una "costituzione" non è altro che un assetto della società politica tale da essere organizzato tramite e mediante la legge, allo scopo di limitare qualsiasi arbitrarietà del potere e di sottometterlo alla sua divisione (o tripartizione) e al primato del diritto.Oltretutto, in quasi tutti i contesti che - a differenza della Gran Bretagna, dove come abbiamo rilevato un testo costituzionale scritto non esiste - registrano casi di incompleta applicazione della Costituzione. Certo, è anche vero che molte Costituzioni scritte e troppo articolate hanno storicamente reso troppo macchinoso e complicato il funzionamento del meccanismo di governo per consentire a un esecutivo di funzionare. E in queste condizioni, la non applicazione, è stata spesso un rimedio all'inapplicabilità. Ma, come osserva Sartori, "sarebbe controproducente o comunque poco sensato accettare in tutti i casi il punto di vista strettamente giuridico secondo il quale tutta la Costituzione deve essere applicata a qualunque costo. E comunque i casi sono due: o il termine Costituzione viene usato nel suo specifico e originario significato garantista e di limitazione del potere, oppure è diventato un doppione inutile (e ingannevole) di termini come organizzazione, struttura, forma o sistema politico". Ma chi difende, oggi in Italia, le prerogative più profonde e originarie del costituzionalismo? E chi propone nella sfera pubblica e nel quadro politico una prassi autenticamente ispirata a una cultura politica che sia costituente e costituzionalista ad un tempo? Insomma, per dirla tutta, contrastare o difendere in vista del referendum il testo di legge costituzionale Renzi-Boschi non implicherebbe affatto il riferimento alla Carta del '46. Ci si dovrebbe semmai confrontare (e scontrare) sui contenuti delle riforme. E farlo significherebbe, in entrambe, le opzioni, agire in nome di un necessario e inevitabile processo costituente. Perché, in definitiva, la risoluzione del "caso italiano" oggi non passa tanto nella capacità di accelerare o reggere la formazione di un governo ma in quella, decisiva, di avviare un nuovo, vasto, entusiasmante, partecipato, "processo costituente" come cuore dei processi istituzionali. Oltre il referendum, oltre le leadership in campo, oltre i limiti delle classi dirigenti possibili, oltre gli stessi partiti.