Ero dal serramenta – ho un problema con alcuni infissi e volevo sapere se può passare da casa a dare un’occhiata: avere le prestazioni di un serramentista è come prenotarsi con il CUP per una colonscopia, sempre meglio portarsi avanti.

Stavamo commentando – c’era un altro cliente, con me – l’ultima “operazione giudiziaria” di Gratteri: siamo in Calabria e di cos’altro si potrebbe parlare? L’altro cliente tira fuori il cellulare per cercare un certo articolo del Sole 24ore e d’improvviso sbianca: è morto Berlusconi, dice. Non è vero – diciamo in coro io e l’uomo delle serramenta. Non è possibile. E subito dopo: e ora, che succede? L’uomo delle serramenta chiama subito casa, la moglie – per avere contezza, per sentire una smentita, per avere conforto forse.

Di sicuro c’è solo che è morto.

Quando, tornando a casa, l’ho detto a mamma, lei lo sapeva già (lo aveva annunciato la televisione, e doveva essere vero). Mi ha detto, dall’alto dei suoi 101 anni, aveva solo 86 anni, era giovane ancora. Come negarlo, dal suo punto di vista?

Ognuno perciò racconterà il “suo” Berlusconi – il figlio di mamma Rosa per mia madre – un grande statista, un amico della mafia, ha fatto grande questo paese, ha svilito e reso ridicolo questo paese: non possono esserci mediazioni con Berlusconi, c’è chi brinderà stappando la bottiglia che aveva conservato da tempo, come fosse una vittoria della propria squadra o del proprio partito, un ultrà dell’antiberlusconismo; e chi si vestirà in gramaglie, mettendo una fascia al braccio o un bottone all’occhiello della giacca o un medaglione con foto smaltata al collo, come si faceva un tempo al Sud, quando veniva a mancare un proprio caro, portando il lutto per anni, per sempre.

Perché un’altra cosa è sicura: Silvio è stato per decenni il “convitato di pietra” nelle chiacchiere degli italiani. Avevo un cognato, piccolo imprenditore di provincia, un uomo che ha faticato sempre con dignità, decoro e onestà, che di Silvio si sentiva un fratello, un parente, un famiglio, un seguace – provava a imitarne il vestiario, mettendo il doppiopetto la domenica in piazza, la postura, i tacchi dentro le scarpe: un Natale regalò ai figli anche una videocassetta con un suo messaggio.

In paese, si tollerava questa sua smania, questa Imitatio Berlusconis; d’altronde, si prodigava sempre quando era tempo del presepe alla chiesa madre, era uno della comunità. E ricordo una Pasquetta – c’eravamo tutti, dell’esteso parentado meridionale, fra generi e cognati e nuore e bambini che ruzzolavano di qua e di là – che per poco non si venne alle mani, quando qualcuno aveva solo nominato “Berlusconi”; alcuni non si sono parlati più per anni, chissà se ora si riconcilieranno. Niente di così divisivo – fu Marco Travaglio, che paradossalmente gli deve tutto, a rivendicare la divisione perché «ciò che è condiviso piace a Berlusconi» – tra fratelli, fidanzati, mogli e mariti, padri e figli, manco fosse il vaccino del covid, manco fosse la guerra in Ucraina.

Non ho il minimo dubbio: se i familiari pensassero a un suo ultimo viaggio in treno da Vipiteno a Villa San Giovanni (arrivare in Sicilia sarebbe faticoso, quel ponte sullo Stretto forse morirà con lui) – proprio come il Funeral Train per Bobby Kennedy che da New York a Washington attraversò cinque Stati, e un milione di persone si mise sui binari a salutarlo, andrebbe così anche con Silvio. Perché solo Berlusconi si poteva chiamare Silvio – e non c’entra niente la politica, il populismo o il tasso di democraticità, ma c’entra la “familiarità” – proprio come solo quel Kennedy si poteva chiamare Bobby. Un ultimo saluto, un ultimo coro – meno male che Silvio c’è. C’è, ancora per una volta.

Ostendere un’ultima volta il corpo del sovrano – d’altronde, non suoni come blasfemo, è morto il giorno dopo il Corpus Domini, il corpo del signore. Non era lui un «Gesù Cristo della politica»? Non era lui «l’unto del Signore»? Sarebbero molte le bandiere alle finestre, tantissimi gli altarini, proprio come si mettono le coperte ai balconi per la processione e si fanno gli altari con fiori freschi e piante e un cuscino per la genuflessione. Quel corpo che è stato velato da calze per annunciare agli italiani la discesa in campo, vestito in calzoncini e maglietta bianca a fare running con codazzo al seguito per dirne la giovinezza la prontezza la forza, ferito da statuette, issato su predellini per lanciare una campagna politica, messo a diete severe, a lifting, a liposuzioni, collassato, rianimato, trapiantato di capelli e dio solo sa di cos’altro, profetizzato come secolare al minimo.

Berlusconi aveva socializzato e sacralizzato il suo corpo – rivestendolo del potere che gli veniva dall’investitura popolare, politica, che era il compimento dell’investitura mediatica. Forse voleva renderlo immortale – le sue stesse malattie, le sue fatiche evidenti venivano mostrate perché fosse più grande lo stupore ogni volta della sua resurrezione. Una passione condivisa. Una “persecuzione” condivisa. Un Golgota condiviso.

Sarà lutto nazionale, perciò. Regale e popolare: un po’ come per la regina Elisabetta. God save Berlusconi.