Ecco l’impressione che si ricava dal parere alla riforma del Csm proposto dalla Sesta commissione e dibattuto ieri dal plenum: una difesa e un’opposizione di parte. Straniante, per un organo di rilevanza costituzionale. Anche perché se si guarda al merito, diversi passaggi in teoria qualificanti di quella critica paiono fragilissimi.

Partiamo dai Consigli giudiziari, dal diritto di voto concesso, in una forma davvero molto prudente, ai soli rappresentanti del Foro nei “mini- Csm” locali quando si deve esprimere il parere sulla professionalità di un certo magistrato. Ebbene su una modifica che, di recente, figure dello spessore di Gianni Canzio, Giuseppe Pignatone e Armando Spataro hanno promosso in pieno, il Csm dice vade retro. Come se gli avvocati fossero una massa sgradita di intrusori, sempre pronta a confondere l’interesse professionale con la carica pubblica. Come se gli Ordini forensi che di fatto dovranno eterodirigere i loro delegati non fossero a loro volta delle istituzioni.

Ed è forse ancora più difficile dare una spiegazione ai rilievi mossi dalla Sesta commissione del Csm su una modifica auspicata persino da capi di governo, a cominciare da Matteo Renzi: l’inveramento del motto “chi giudica non nomina, chi nomina non giudica”. In altre parole, il divieto per i consiglieri superiori assegnati alla sezione disciplinare di partecipare contemporaneamente ad altre commissioni, in particolare alla Quinta, in cui si avanzano le proposte per gli incarichi direttivi. Il parere negativo alla norma proposta sia da Bonafede che da Cartabia, ora all’esame di Montecitorio, ritiene la preclusione eccessiva. Ma onestamente, com’è pensabile che un componente del Csm prima si batta perché a capo di un’importante Procura vada un certo pm e poi debba trovarsi a fare da giudice su un illecito disciplinare contestato a quello stesso pm? Sì, potrà astenersi, potrà essere ricusato se non si astiene: ma non si realizza forse un ordine più compiuto, se si evita ogni eventuale sovrapposizione, anche indiretta?

E siamo alle cosiddette pagelle, forse il vero collo di bottiglia di tutte le diffidenze togate sulla riforma. Come ormai arcinoto, il maxiemendamento con cui Cartabia integra il testo Bonafede modifica l’attuale meccanismo per cui, nelle valutazioni di professionalità, si decide solo se un certo giudice è o non è “adeguato”. Se passa la riforma, chi risulta all’altezza della promozione (e dello scatto retributivo) sarà individuato con diversi indicatori di merito: discreto, buono, ottimo. Dire, come fa la maggioranza del Csm, che si tratta di un’istigazione al carrierismo, pare francamente ingiusto.

Non si tiene conto del fatto che quei giudizi sono concepiti per rendere meno melmoso un carrierismo già radicato, quello di chi aspira agli incarichi direttivi. Oggi le nomine a procuratore o a presidente di Tribunale sembrano obbedire troppo spesso alle appartenenze. Si vuol cercare di piegarli di più alle qualità effettive. E poi, se vogliamo limitarci al piano formale, va detto che ora molte delle cartucce a disposizione di un magistrato per aggiudicarsi un posto di comando si basano sul terribile meccanismo di cui ci parlò anni fa, in un’intervista, l’ex togato Piergiorgio Morosini: la ricerca di una sintonia con il capo dell’ufficio in cui si lavora.

La relazione con il dirigente è quasi sempre decisiva nell’accrescere le ambizioni del “magistrato semplice”. Non solo: sono decisivi pure gli incarichi temporanei che il procuratore, per esempio, affida a un proprio pm. È chiaro come tali investiture dipendano da un’adesione del magistrato alle volontà e persino alle convinzioni personali del suo vertice, fino a condizionare assai più l’autonomia di quanto non avverrebbe con le cosiddette pagelle. Che almeno dovrebbero stemperare quel circuito autoreferenziale di rapporti in un sistema valutativo più ampio.

Davvero al Csm pensano che questa spinta vada letta solo in chiave ciecamente efficientista, anziché correttiva di distorsioni già presenti e ben più gravi? Nel dire no al cambiamento, ci si ricorda pure, come ha fatto ieri il plenum, di costituirsi in giudizio nel ricorso presentato da Angelo Spirito contro la riconferma degli attuali vertici della Cassazione, Pietro Curzio e Margherita Cassano. Giusto, legittimo. Ma combinato con l’altolà al testo Cartabia, quella resistenza diventa un altro segno di un Csm troppo irrigidito per non ricordare il sindacalismo di quarant’anni fa.