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Il concetto era stato ribadito da Joe Biden nella sua visita a Tel Aviv e ora anche l’Unione europea ci è tornata sopra, per la prima volta: Israele ha pieno diritto di difendersi dalla minaccia terrorista di Hamas, ma deve farlo nel perimetro del diritto internazionale. In altre parole deve distinguere tra miliziani ostili e popolazione civile e mettere fine all’assedio della Striscia bloccando il passaggio dei generi di prima necessità e interrompendo le forniture.
A ricordare queste nozioni al governo Netnyahu l’Alto rappresentante per la politica estera europea Joseph Borrell: «Sosteniamo la soluzione a due stati e il diritto alla difesa da parte di Israele. Ma il diritto alla difesa ha dei limiti che sono quelli del diritto internazionale. Questo significa che non si possono tagliare l’acqua e l’elettricità per la popolazione civile. Perchè non è infliggendo ad altri bambini il dolore che hanno subito i nostri che otterremo la pace per il futuro».
Dall’inizio dei raid aerei contro gli obiettivi del movimento sialmista circa 5mila palestinesi hanno perso la vita, la gran parte dei quali civili. Borrell chiede inoltre che i camion con gli aiuti umanitari possano entrare più numerosi nella Striscia dove oltre mezzo milione di persone hanno lasciato le proprie abitazioni: «Prima della guerra entravano circa 100 convogli al giorno, oggi una ventina e ce n’è molto più bisogno» ha concluso Borrell.
Naturalmente le operazioni di soccorso ai civili in fuga sono incompatibili con l’annunciata offensiva di terra dell’esercito israeliano all’interno di Gaza, per questo la comunità internazionale chiede a Tel Aviv grande cautela. In realtà il governo Netanyahu e i vertici militari israeliani stanno ritardando l’offensiva per una altro spinoso problema: la questione degli ostaggi, oltre 220 ancora nelle mani dei Hamas. La liberazione di due donne americane avvenuta sabato notte ha riacceso la speranza dei possibili trattative, dimostrando che anche all’interno di un conflitto durissimo esistono sempre margini di negoziato per salvare vite umane. Ieri sera l’edizione online di Haaretz (quotidiano progressista e antigovernativo) precisava che sarebbero in corso trattative per scambiare alcuni prigionieri con l’invio di carburante, tagliato da Israele subito dopo i massacri di Hamas.
Secondo quanto invece scrive il New York Times anche in questo caso è stato decisivo l’intervento del presidente Biden che invita l’alleato a prendere tempo. Sempre il quotidiano newyorkese spiega che Biden e altri esponenti della sua Amministrazione starebbero esortando Israele a non condurre un attacco importante contro Hezbollah nel sud del Libano, sviluppo che potrebbe far entrare la potente milizia libanese, nella guerra in corso con Hamas estendendo mortalmente l’area del conflitto.
Evitare due fronti in contemporanea, un allargamento del conflitto che potrebbe portare a un coinvolgimento diretto di Stati Uniti e Iran, sponsor di Hezbollah, accusato di sostenere gli Houthi dello Yemen e anche Hamas.
Insomma l’esecutivo israeliano, vincolato anche agli aiuti statunitensi (14 miliardi di dollari), deve tenere conto di diversi fattori politici e diplomatici prima di sferrare una guerra totale nel labirinto di Gaza. Ieri c’è stata in tal senso una inusuale dichiarazione congiunta di Netanyahu e del capo delle forze armate in cui hanno spiegato che tra loro c’è piena «unità di intenti e vedute». Quasi un mettere le mani in avanti per rassicurare un’opinione pubblica sempre più inferocita come dimostra un’inchiesta del Israel Democracy Institute, per cui il governo di “Bibi” è il meno popolare degli ultimi 20 anni.
Un altro sondaggio del quotidiano centrista Maariv indica che l’80% degli israeliani ritiene il premier «direttamente responsabile» degli attacchi dello scorso 7 ottobre ma allo stesso tempo un buon 65% è convinto che l’offensiva militare di terra sia a questo punto «inevitabile».