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La scorsa settimana la Giunta dell’Associazione nazionale magistrati ha deciso di imprimere un’accelerazione al progetto di riforma del codice etico nella parte riguardante l’uso dei social network. Come era facilmente immaginabile, la proposta non è stata ben accolta fra le toghe.
Attualmente sono però già previsti dei «paletti» : il magistrato, infatti, «quando non è tenuto al segreto o alla riservatezza su informazioni conosciute per ragioni del suo ufficio e ritiene di dover fornire notizie sull’attività giudiziaria, al fine di garantire la corretta informazione dei cittadini e l’esercizio del diritto di cronaca, ovvero di tutelare l’onore e la reputazione dei cittadini, evita la costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati». «Fermo prosegue il regolamento - il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione».
Con le nuove norme in discussione ci sarebbe, invece, una decisa stretta e i social diventerebbero off limits per i magistrati. Il tema è molto delicato. Il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte ha più volte sottolineato la necessità di un intervento. La regolamentazione dell’uso dei social è stata anche affrontata al Csm. Ma ogni tentativo in tal senso è sempre finito in un sostanziale nulla di fatto. Ci provò, l’anno scorso, il consigliere laico Pierantonio Zanettin ( FI).
I casi balzati alle cronache sono molti. Si ricorderà, ad esempio, il pm di Imperia che faceva apprezzamenti sull’aspetto fisico di Gabriel Garko o quello di Trani che, dopo il flop della sua inchiesta sulle agenzie di rating, si sfogava con i suoi follower lamentando di «essere stato lasciato solo». Oppure il giudice di Trieste che sparava a zero contro la governatrice del Pd Debora Serracchiani ( «Un errore della Storia» ), fino al presidente del Tribunale di Bologna che etichettava come «repubblichini» chi era favorevole al recente referendum.
Non pochi magistrati parlano apertamente di voglia di “censura” da parte dei vertici associativi e dell’autogoverno. Un tentativo di “sviare” l’attenzione da quelli che sono i veri problemi della magistratura italiana. E’ più facile, in sostanza, vietare l’uso dei social che intervenire sulle questioni serie, come scrive proprio su Fb il giudice di sorveglianza di Verona Andrea Mirenda.
Fra i temi di cui bisognerebbe occuparsi per il magistrato veneto c’è «l’occupazione militare del Csm da parte dei vari sindacati delle toghe», «la ferrea regola delle nomine direttive riservate ai sodali di corrente, con il beneplacito dei politici che siedono in Consiglio», «l’asservimento culturale dei magistrati, costretti a genuflettersi di fronte allo strapotere dei signori delle correnti ai fini di carriera» e, infine, «la sempre maggiore distrazione dei magistrati, alla ricerca di forte visibilità attraverso mille attività extracurricolari».
Per Mirenda fare il magistrato è «percepito sempre più come una «scocciatura» che impedisce di «far altroassai più fruttuoso». Un serio problema anche per l’Avvocatura, «esposta com’è al rischio di divenire incolore e ineffettiva al cospetto di un «modello» di giudice distratto e «speranzoso», conclude la toga veronese. Parole pesanti che suggerisco una attenta riflessione sul momento che sta attraversando la magistratura italiana.