E alla fine la guerra di Putin è arrivata. E quel che è arrivato, è una guerra convenzionale, e pure classicamente aperta da una notturna dichiarazione ufficiale. Una guerra di aggressione, una guerra novecentesca, che di asimmetrico - come comunemente si denominano i conflitti nostri contemporanei- non ha invece nulla, se non la sproporzione delle forze militari in campo, il rapporto di 1 a 10 tra Ucraina e Russia. E una guerra, al momento in cui scriviamo, molto simile a un blitzkrieg, poiché rotti i labili confini del Donbass i boots on the ground inviati da Putin stanno puntando con decisione alla capitale Kiev, della quale ieri han preso anzitutto l’aeroporto. E' il primo indizio di una diversità profonda di Putin, che certo contro i suoi nemici usa anche attacchi cyber e tutte le moderne tecnologie, ma che sembra muoversi come un leader del secolo scorso, come notò una volta Angela Merkel, il capo di governo europeo che ha avuto più a lungo a che fare con lui. Avendo assistito a una girandola di tavoli diplomatici, a sforzi negoziali che nei vari formati sono andati avanti per settimane, bisognerà chiedersi cosa sia cambiato nella testa di Putin, cosa possa averlo indotto a rompere gli indugi. Perché, sia pure nell’apparenza di una rappresentazione democratica - voto, parlamento, forma presidenziale - la Federazione russa è un’autocrazia. Il potere russo è verticale, e culmina nel suo presidente, che tra l’altro per restare saldamente tale a lungo ( ormai è oltre un ventennio) ha cambiato la Costituzione. E per capire fino a che punto si tratti di un uomo solo al comando, basta visionare il breve filmato dello scontro tra Putin e il suo capo dell’intelligence, con il secondo intimidito al punto da cambiare versione in diretta televisiva circa “l’autonomia” delle due “repubbliche” del Donbass, che inizialmente aveva sconsigliato. Putin, insieme al suo ministro degli Esteri Sergej Lavrov, avrà percorso fintamente la via diplomatica, usando il doppio linguaggio, schierando 150.000 uomini ai confini con l’Ucraina per «esercitazioni» mentre continuava a chiedere passi indietro all’Occidente circa la politica di porte aperte alla Nato per Kiev, ma avendo già chiaro in mente il piano di guerra? Non lo sapremo mai, ma è certo possibile che, in quel mese dì trattative diplomatiche, la faccenda dell’allargamento della NATO all’Ucraina sia stato come un elastico che di volta in volta tornava in faccia a chi lo aveva teso, finendo per esasperare i russi: l’Ucraina non ha i requisiti per l’adesione, a cominciare proprio dall’incertezza delle sue frontiere, ma i leader occidentali hanno continuato ad agitare l’argomento come una veronica. Finché non è stato Olaf Scholz ad ammettere che la cosa non aveva reale fondamento. Ma intanto, appunto, Putin ha preso quell’argomento e lo ha messo in prospettiva: va sgombrato il campo da una possibile adesione dell’Ucraina al Patto Atlantico in futuro, e va sgombrato - ha scandito- adesso. Allora forse, bisogna alzare lo sguardo e osservare tutto lo scenario. Sì, l’Occidente ha avviato fitte consultazioni diplomatiche, ma presentandosi in ordine sparso. Blinken, e poi uno a uno i principali leader e ministri degli Esteri europei, a briglia sciolta: forse l’Europa avrebbe dovuto parlare con una voce unica, attraverso il suo Mr. Pesc. E ha trattato Putin come un normale leader, non come un autocrate. Lo ha trattato come se potesse cambiare posizione. Cambiarla radicalmente. Invece Putin sembra essere molto conseguenziale. Che abbia l’ambizione di ricostituire in qualche forma la tracollata Unione Sovietica lo si sa fin dai tempi in cui era solo il braccio destro del sindaco di San Pietroburgo Anatoli Sobtchack. Era il 1994, e Putin lamentava la «gigantesca perdita di territorio russo» conseguente al crollo dell’Unione Sovietica. Da allora, diventato eterno presidente della Federazione, ha tentato prima di lanciare un disegno geopolitico dì alleanze con i Paesi dell’ex URSS, poi, fallito quello, è passato all’azione. Prima per riprendersi la piccola Georgia, poi si la Crimea, e adesso puntando all’Ucraina tutta, che con i suoi 600.000 chilometri quadrati ha un territorio effettivamente gigantesco. La strategia attuata in Georgia è del tutto sovrapponibile a quanto accaduto all’Ucraina. In Georgia, le locali comunità russofile - adeguatamente finanziate e anche “ripopolate”- si dichiararono repubbliche indipendenti da Tlblisi, Mosca le riconobbe come tali, poi dichiarò di temere attacchi georgiani ai russi di Abkazia e Ossezia, ci furono due anni di guerra e il dispiegamento di 40.000 militari russi che cominciano a marciare verso la capitale georgiana. Solo un accordo negoziato a Mosca da Sarkozy - anche in quel 2004 era di turno la Francia alla presidenza del semestre europeo- blocca l’operazione. Ma Abkazia e Ossezia sono rimaste a Mosca. La Georgia come l’Ucraina, negli anni immediatamente successivi allo scioglimento dell’URSS, erano state interessate da rivoluzioni democratiche (rispettivamente «rosa» e «arancione»), e l’allora presidente americano George W. Bush aveva loro promesso dì avviare un percorso dì adesione alla NATO, puntando entrambe anche ad un’avvicinamento alla Ue. E non va dimenticato che il primo evento della crisi ucraina cui assistiamo oggi fu quello che ha portato la Russia ad annettersi la Crimea nel 2014: il controllo fu preso da truppe russe senza insegne, poi il governo fantoccio instaurato da Mosca proclamò l’«indipendenza» della Crimea, naturalmente con tanto di referendum popolare. Ed è da quei fatti, e dalla caduta di Janukovic, che a Kiev non c’è più un capo di Stato sostenuto da Putin. Dunque, il copione è lo stesso da almeno due lustri. La guerra in Ucraina non è un grande azzardo, se non nelle prospettive poiché dopo vent’anni di lotta per la democrazia difficilmente gli ucraini accetteranno il tallone di Mosca, per la quale Kiev potrebbe anche trasformarsi in una nuova Kabul.