«L'apertura dei negoziati per l'adesione dell'Ucraina all'Unione Europea è una decisione sbagliata, che potrebbe avere effetti negativi, di certo le conseguenze finanziarie ed economiche di ciò non saranno pagate dagli ungheresi, ma da chi ha preso questa decisione».

Il ricatto di Viktor Orban a Bruxelles non poteva essere più rude: se l’Ue non sbloccherà i fondi destinati a Budapest e congelati pur le ripetute violazioni dello Stato di diritto, l’Ungheria si metterà di traverso all’ingresso di Kiev e i dieci miliardi su trenta recentemente elargiti dalla Commissione non bastano: «Dovete darci ciò che ci spetta, non la metà, non un quarto, ma tutto».

Ancora una volta l’Unione è tenuta in scacco, se non in ostaggio da un membro il cui peso democratico è inversamente proporzionale alla sua capacità di arrecare danno e che con i suoi veti e il suo sguardo rivolto al Cremlino sembra una specie di cavallo di Troia.

Orban è in tal senso un corpo estraneo all’Unione europea, alla sua storia e alla sua cultura, un patchwork di nazionalismo autoritario e pulsioni filorusse che lavora d’impegno per inceppare la già goffa e farraginosa macchina comunitaria. Fin dove vuole spingersi nella sua opera di sabotaggio?

Nato in una famiglia relativamente modesta è cresciuto in un'Ungheria provinciale e conservatrice sotto una patina comunista. Una delle sue ossessioni è la “magiaritudine”, ovvero l'identità ungherese, un popolo linguisticamente isolato dai vicini slavi, germanici e latini, da qui la riabilitazione di figure a dir poco ambigue del periodo tra le due guerre, come l’ammiraglio Horthy, feroce anticomunista e sfacciato antisemita, che fu reggente tra il 1920 e il 1944. Nel 2012 riuscì a far cambiare, tramite referendum, la “Repubblica di Ungheria” in Ungheria, perché non si sa mai che un giorno torni la monarchia, magari con lui stesso alla guida, Allo stesso tempo non ha mai nascosto una verace ostilità verso un'Europa occidentale, cosmopolita e liberale percepita come luogo di decadenza morale un po’ sulla falsariga di Dugin il filosofo identitario consigliere di Vladimir Putin, La sua crociata contro il magnate George Soros finanziatore di decine di ong ungheresi sembrauscita dalla Germania degli anni trenta. Sulla questione dei migranti Orban ha una linea contigua all’estrema destra europea, con la differenza che lui, alla propaganda preferisce i fatti e le frontiere le ha chiuse davvero, trattando i rifugiati in sprezzo totale delle regole di uno stato di diritto.

Nel 2015, dopo aver bloccato migliaia di profughi in fuga dalla guerra in Siria si vantò della sua decisione con queste parole: «Se non l’avessi fatto saremmo diventati un enorme campo profughi, una specie di Marsiglia dell’Europa centrale». Sul piano economico, a differenza di Marine Le Pen e in fondo della amica e alleata Giorgia Meloni è un convinto sostenitore del liberismo e della deregulation Il populismo per il premier ungherese è soprattutto uno stile politico nonché il tratto centrale della sua comunicazione in questo è un primo della classe. È molto abile nel parlare alle classi medio basse delle aree rurali del Paese, un politico di razza che dice ai suoi concittadini quel che vogliono sentirsi dire con un tono semplice, distante dalle élite, sbandierando il suo amore per gli intrattenimenti popolari su tutti il calcio e la sua vicinanza alla religione cristiana ( lui è calvinista, la moglie cattolica).

Quattro volte primo ministro, il suo ingresso nell'arena politica risale al giugno 1989, durante ultimi spasmi di un regime socialista in disfacimento, durante la grande cerimonia di sepoltura dei martiri della rivoluzione del 1956, intervenne per chiedere la partenza delle truppe sovietiche. Il leader di Fidesz era una delle speranze di un post- comunismo riformista, aperto all'Europa. Ma, tornato al potere dopo otto anni all’opposizione, si è trasformato in un autocrate nazionalista e ultra- conservatore, dichiarando guerra alla libertà di espressione, ai diritti civili, alla fantomatica “ideologia gender”, al riconoscimento delle coppie omosessuali. Nel 2020, in piena pandemia ha approfittato della crisi per imprimere un’ulteriore svolta autoritaria, prolungando lo stato di emergenza a tempo indeterminato varando un decreto che gli permetteva di sciogliere il parlamento o di annullare le elezioni.

Quando le truppe russe hanno invaso l’Ucraina invece si è prodigato invece per boicottare qualsiasi iniziativa volta ad aiutare il governo di Kiev, giocando di sponda con l’amico Putin. Il ricatto di ieri non è che la logica conseguenza di tutto questo.