L'ennesima sentenza ha scosso il sistema carcerario italiano, mettendo in luce la “tortura di Stato” avvenuta nel penitenziario di Bari. Nove agenti della polizia penitenziaria sono stati condannati per aver «brutalmente aggredito» un detenuto di 43 anni con problemi psichici, in una vicenda che solleva interrogativi inquietanti sulle condizioni all'interno delle carceri italiane.

I fatti risalgono alla notte del 27 aprile 2022, quando il detenuto, dopo aver appiccato un incendio nella sua cella, è stato oggetto di un'aggressione che, secondo i giudici, si è consumata in soli cinque minuti. Gli agenti hanno immobilizzato l'uomo a terra, premendo con gli scarponi sulla sua testa e sull'addome, un'azione che il tribunale ha definito come una chiara violazione dei diritti umani e delle norme dell'ordinamento penitenziario.

Le condanne, emesse il 20 marzo scorso dal collegio presieduto dal giudice Antonio Diella, vanno da un massimo di 5 anni a un minimo di 6 mesi di reclusione. Cinque agenti sono stati accusati di tortura, mentre gli altri quattro rispondono di reati quali abuso d'ufficio, rifiuto di atti d'ufficio, violenza privata e falso ideologico. Le motivazioni della sentenza da poco depositata sottolineano con forza che «in carcere è vietato l'uso della forza per punire» e che la coercizione può essere impiegata solo per prevenire danni a persone o cose. I giudici hanno respinto le argomentazioni della difesa riguardo a un presunto comportamento violento del detenuto, evidenziando invece come l'aggressione sia avvenuta in assenza di reali situazioni di pericolo. Particolarmente grave è il fatto che gli agenti abbiano agito contro il detenuto «prima che gli altri detenuti venissero spostati» in seguito all'incendio, dimostrando una mancanza di priorità nella gestione dell'emergenza e un accanimento ingiustificato verso l'individuo. D'altronde, come viene evidenziato nella sentenza, anche le violenze perpetrate da uno degli agenti «paiono del tutto estranee ad un eventuale pericolo della presenza di una lametta: a tal riguardo è di inequivoco significato l'ultimo violento calcio sferrato al detenuto, che è a terra e gli dà le spalle, con uno scarto nel percorso che lo stesso agente stava facendo verso il fondo del corridoio, un calcio che si spiega solo ed esclusivamente con la decisione di fare male e non con il voler prevenire alcunché da parte di quest'ultimo».

Dalle riprese video emerge chiaramente che un gruppo di agenti scende dal primo piano insieme. Si evince che uno degli agenti in questione è presente sin dall'inizio dell'aggressione, caratterizzata da schiaffi, pugni e calci, che si svolge al piano terra. Questo individuo risulta parte integrante del gruppo che si chiude attorno al detenuto a terra per continuare il pestaggio. In un momento specifico, l'agente in questione allunga il piede verso il detenuto con l'evidente intento di colpirlo. Questo tentativo fallisce poiché un altro membro del gruppo si frappone tra il calcio sferrato e il corpo a terra della vittima. Questo dettaglio, catturato chiaramente dalle immagini, è decisivo e non lascia dubbi sul comportamento dell'agente, sulla sua consapevolezza di ciò che stava accadendo ai danni del detenuto, e sul fatto che il suo piede allungato verso la persona a terra non avesse affatto lo scopo di fermare un collega. Il ragionamento espresso nelle motivazioni è chiaro. Se l'intenzione dell'agente fosse stata quella di impedire le violenze dirette contro il detenuto, il suo comportamento avrebbe dovuto essere ben diverso. Lo scorrere delle immagini, ancora una volta determinante, non lascia spazio a interpretazioni alternative riguardo alle azioni e alle intenzioni dell'agente durante l'incidente.

Interessante l'aspetto del degrado del carcere, che rispecchia quello del Paese. Nelle motivazioni stesse, il giudice, sottolineando che ciò non giustifica la tortura, evidenzia come quel carcere fosse gravemente sovraffollato, con carenza di organico e una percentuale significativa di detenuti affetti da problematiche psichiche, accompagnata dalla mancanza di formazione specifica per tutti gli operatori di Polizia penitenziaria interessati a trattare questa tipologia di detenuti. Il giudice però è stato chiaro: «Che se le circostanze di cui si è detto possono essere valutate al fine di comprendere quali possano essere state le ragioni dello scatenarsi della violenza nei confronti del detenuto, in alcun modo può affermarsi che tale violenza fosse in qualche modo “dovuta”, “giustificata” e quindi “legittima”».