Signora? No grazie, ma neanche avvocato. Se ad indossare la toga è una donna, chiamatela avvocata. C’è chi la declina come una battaglia ideologica, ma si tratta di rispetto delle regole linguistiche esistenti. A me, indossata la toga, è subito sembrato normale presentarmi come avvocata. Forse perché prima di avere il titolo, durante l’università, per pagarmi gli studi lavoravo come impiegata, e mai nessuno mi aveva qualificato al maschile. Conservo ancora con cura il mio primo biglietto da visita, del 2011: “Barbara Spinelli, avvocata”. E ricordo le parole del tipografo: “Ma è sicura che si dica così? Perché tutte le sue colleghe scrivono avvocato”. Lo rassicurai: “Lei non si preoccupi, il tempo mi darà ragione”. Sono passati trent’anni dalle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, di Alma Sabatini, e con poche eccezioni le donne che ricoprono il titolo di professionista o che ricoprono ruoli istituzionali continuano ad essere appellate al maschile. Si tratta di scelte linguistiche. Ma qual è l’applicazione corretta della lingua italiana? Le regole della grammatica italiana impongono la declinazione al femminile per tutto ciò che ha un referente umano femminile. Avvocato è una professione, esattamente come impiegato, e va declinata al femminile, che è avvocata, non avvocatessa. Questo perché nella lingua italiana il prefisso "-essa", applicato a nomi che al maschile non terminano per “e”, assume una valenza dispregiativa. Voi direte: ma allora giudice diventa giudicessa? No. Si tratta di un termine cosiddetto epicèno: sono nomi che hanno un’unica forma per il maschile e il femminile, indipendentemente dal sesso dell’essere animato a cui si riferiscono (il pesce, la volpe). Tutti i nomi epicèni terminano per “e” o per “a”. Alcuni erroneamente affermano che questa regola andrebbe applicata anche a nomi di professioni e cariche istituzionali che finiscono al maschile per “o”, ma, guarda caso, nessuno si pone il problema della neutralità del ruolo quando si parla di sarte o cassiere: il problema sorge quando si ha a che fare con ruoli e professioni nelle quali la presenza femminile è relativamente recente: questora, avvocata, assessora. Invece, come spiega bene Vera Gheno nel suo libro Femminili singolari, avvocato è un nome di genere mobile, cioè si declina in base alle regole morfologiche previste dall’italiano, al maschile ed al femminile. Nella lingua italiana il genere neutro non esiste, e dunque il “maschile inclusivo” è un costrutto ideologico, estraneo alla nostra grammatica, volto a perpetuare l’occultamento dell’esistenza di soggetti femminili nell’ambito di professioni storicamente riservate agli uomini. Questa sì, dunque, che è una scelta linguistica ideologica. Di stampo patriarcale e classista, discriminando tra la meno prestigiosa professione di impiegata e quella di avvocata. Nell’articolo “Qual è il femminile di avvocato?”, sul sito Treccani leggiamo: “Il sostantivo maschile avvocato dispone di due forme femminili: avvocata e avvocatessa. La seconda forma appartiene all’uso tradizionale. La prima, pur non essendo ancora di uso generalizzato, è perfettamente legittima (maschile -o, regolare femminile in -a) e viene adoperata, in particolare, da chiunque sia sensibile a un uso non sessista – e, più in generale – non discriminatorio della lingua italiana”. Nelle Linee Guida dell’Agenzia delle Entrate per l’uso di un linguaggio rispettoso delle differenze di genere invece si rileva: “Per il femminile di avvocato ritroviamo spesso sia la forma in -a sia quella in -essa. Dal punto di vista grammaticale la soluzione non è univoca: alcuni considerano errata la forma avvocatessa e valida solo quella di avvocata; l’Accademia della Crusca invece riporta entrambe le forme alternativamente, senza che se ne possa ritenere una prevalente rispetto all’altra. Riteniamo tuttavia consigliabile in questa sede l’uso del termine avvocata, in quanto più aderente a un uso non discriminatorio della lingua italiana”. Allora è una truffa delle etichette parlare di “campagna del mutamento linguistico”, o lasciare spazio alla sensibilità personale. Le regole sono regole e vanno rispettate. Non troverete in nessun manuale di linguistica o di grammatica la regola del maschile inclusivo. Semplicemente perché non è una regola grammaticale, ma un costrutto culturale per giustificare la reticenza nella declinazione al femminile dei nomi di professioni e ruoli istituzionali. “Da un punto di vista linguistico l’italiano ammette e prevede la formazione dei femminili. Le forzature e le stonature che alcune persone dichiarano di percepire quando si declinano certi termini al femminile, perciò, non possono essere ricondotte a motivazioni grammaticali e morfologiche quanto a una questione di abitudine o a un fatto socio-culturale, per cui il ricorso al femminile – stereotipicamente considerato come più debole rispetto al maschile – porta a immaginare uno svilimento della carica o del ruolo professionale”, afferma Vera Gheno. A conferma di ciò, anche l’imbarazzante passo indietro del Presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini, dall’interventista all’Huffington Post a quella più recente a Vanity Fair, con cui ha corretto il tiro, spiegando che la reticenza nella declinazione al femminile da parte della Venezi è di carattere culturale, ed è condivisa da quante ritengono che la declinazione al femminile accomuni il loro ruolo a ben meno nobili dirigenze. Analogamente si era espresso nel 2000 nella prefazione alle Linee Guida dell’Agenzia delle Entrate sopra citata: “Ci è facile dichiarare la piena legittimità dei nomi di professione femminili, ed è altrettanto facile ribadire un concetto evidente: che i giudizi di bellezza o bruttezza per le professioni al femminile (termini come ministra e sindaca, ma anche chirurga o ingegnera) non hanno alcun senso, perché si basano solo sull’abitudine: pare bello quello a cui siamo abituati, pare brutto quello che è nuovo e diverso”. La sua precedecessora, Nicoletta Maraschio, nel maggio 2008, in occasione della nomina come prima donna eletta presidente dell'Accademia della Crusca, aveva pubblicato sulle colonne del Sole 24 ore un articolo in cui esprimeva il suo parere a favore della forma la presidente. Pretendere un corretto utilizzo della lingua italiana, e dunque anche pretendere che avvocato al femminile venga declinato avvocata, significa pretendere il rispetto della lingua italiana. Le regole esistono e sono chiare. In un compito in classe alla scuola primaria, ove si chiedesse di indicare il femminile di avvocato, la risposta avvocato o avvocatessa verrebbe sottolineata in blu. Idem per direttore – direttrice. Non si tratta di stigmatizzare chi la pensa diversamente: se ci sono colleghe gender-fluid o che vedono un maggior prestigio nella declinazione al maschile, ben potranno correggere il loro interlocutore, chiedendo cortesemente di essere chiamate avvocato o avvocatessa. Si tratterebbe di un uso improprio della lingua, per scelta, sulla base della propria ideologia personale. Ma non può continuare ad essere il contrario. La moquerie nei confronti delle colleghe che pretendono il rispetto della lingua italiana deve finire, altrimenti si prenda atto che la cultura patriarcale è ancora dominante, anche sotto la toga, e la sua arroganza è tale da pretendere di continuare ad impedire, nel 2021, l’uso corretto della lingua italiana.