«Non rimpiango le seriose analisi delle sconfitte, trovo però che senza una ricostruzione delle identità che qualificano culture diverse e alternative proseguiremo sulla via di letture superficiali e consolatorie, tanto delle sconfitte, e noi ne abbiamo subita una pesante, che delle vittorie». Gianni Cuperlo, coscienza critica del Pd appena rieletto deputato, non si nasconde dietro un dito dopo il trionfo delle destre e prova a scavare nelle cause. «Pensiamo alla parabola rapida di “capi” riconosciuti tali, Renzi, Salvini, oggi Meloni. Questa incredibile mobilità nel consenso - salire dal 5 per cento a sei volte tanto - non è un segno di stabilità, ma di fragilità della politica e, temo, della democrazia».

È mancata una proposta politica del Pd alle elezioni o è solo stato un problema di comunicazione?

La comunicazione è figlia e non madre della politica. Puoi avere Stanley Kubrick a girarti gli spot, ma conta chi sei e come vieni vissuto dal pezzo di società che ti candidi a rappresentare nei suoi bisogni. Noi abbiamo scritto un programma che sottoscriverei domattina, il più a sinistra da quando il Pd ha visto la luce, ma le urne ci hanno messo dinanzi a un consuntivo che non si racchiude in quel programma e neppure negli ultimi due mesi o nell’anno e mezzo della segreteria di Enrico Letta. Paghiamo la sintesi di almeno un decennio che ci ha visti perdenti nel voto e spesso vincenti nel governo. Resta che la percezione della parte offesa del paese, lavoratori, precari, pensionati sotto al minimo, ci hanno detto che non li vedevano più, e soprattutto non credevano che potessimo rappresentarli nei loro interessi. Ripartiamo da questa consapevolezza, oggi è il minimo che possiamo fare.

È stato un errore appiattirsi, almeno in una prima fase, sull'agenda Draghi?

Ho sempre pensato e penso anche adesso che l’agenda Draghi fosse Mario Draghi. La sua reputazione e autorevolezza in Europa e oltre Atlantico. Noi lo abbiamo sostenuto con lealtà difendendo le nostre idee, dallo ius scholae al salario minimo a una mensilità in più nelle buste paga dei lavoratori. Alcune, non tutte, di quelle riforme erano sul rettilineo finale e aver fatto cadere il governo ha impedito di tagliare il traguardo. Penso sia stato un errore, detto ciò prendo atto che l’unica forza di opposizione, Fratelli d’Italia, e quella di maggioranza che la crisi ha innescato, il Movimento 5 Stelle, sono usciti dalle urne con un premio di consensi. Su questo dovremo riflettere perché ha molto a che vedere con cosa è oggi il nostro sistema politico.

Da quando esiste, il suo partito è stato spesso al governo pur non avendo mai vinto una competizione elettorale in maniera netta. Così non si rischia di trasformare il potere in un fine invece che in un mezzo?

Sì, l’ho detto. L’ultima volta che il centrosinistra ha vinto le elezioni politiche è stato con Romano Prodi nel 2006. Sono passati sedici anni, eppure per oltre dieci siamo stati al governo. Sempre per motivi legittimi, persino nobili: una volta c’era da salvare l’Italia dalla bancarotta finanziaria, un’altra bisognava evitare i “pieni poteri” di Salvini, una terza completare il piano vaccinale e spendere al meglio i fondi del Pnrr. A quel punto la percezione di un pezzo del paese - per inciso quello che avremmo dovuto rappresentare più degli altri - ha ritenuto che per noi lo stare al governo, leggi il “potere”, da mezzo si fosse trasformato in un fine ultimo. Una crisi di credibilità credo venga anche da qui e il congresso che stiamo per svolgere deve farsene carico.

Bonaccini, Schlein, De Micheli. È già lungo l'elenco dei possibili successori di Letta. Ma ha senso consumare segretari senza lavorare sull'identità politica?

No, non ha alcun senso. E con la stima e l’amicizia che nutro per quelle figure, e magari altre che dovessero aggiungersi, il mio appello è a fermarsi e riflettere. Immaginare di affrontare le cause di una sconfitta storica sostituendo un leader con un altro è solo il modo per nascondere la polvere sotto al tappeto. Abbiamo perso, e malamente. Non è morale rovesciare la responsabilità su Enrico Letta. La sua linea l’abbiamo condivisa tutti, nessuno escluso. E allora ha ragione Romano Prodi, adesso è il momento di ripensare alla radice il soggetto partito e il progetto che lo ha generato. Meno di questo e pittureremo la facciata come in una scenografia di Cinecittà, con dietro il vuoto.

Come si fa chiarezza all'interno di un partito bloccato da dinamiche interne e rendite di posizione sedimentate negli anni?

Col coraggio di un confronto vero, anche aspro se serve, ma sincero. Con piattaforme, impianti politici e culturali diversi dove si misurino letture chiare della società e dei suoi mutamenti. Dobbiamo entrare nel merito dei processi in atto. Benissimo dire “transizione ecologica”, ma cosa implica in termini di compensazioni per quelle categorie di lavoratori che rischiano il posto di lavoro? Giusto schierarsi a fianco al popolo ucraino aggredito dall’imperialismo russo, ma possiamo lasciare le categorie della pace e del disarmo nelle sole parole del Vescovo di Roma? E poi, come ricollocare nella stagione storica che si aprirà dopo queste elezioni i principi costituzionali delle libertà individuali e dei diritti collettivi? Facciamolo un congresso, ma partiamo da qui, non da una conta ai gazebo. Perché anche nelle sconfitte c’è qualcosa di solenne, persino epico, ma se le riduci alla farsa di un “X factor” per la scelta del futuro segretario finisci col mancare di rispetto alla tua comunità e a te stesso.

Serve quindi un congresso d'altri tempi, con tesi contrapposte, candidati alla segreteria e iscritti che discutono e votano, ripensando il sistema ' spettacolare' delle primarie aperte?

Penso a un congresso completamente diverso da quelli che lo hanno preceduto. Diviso in due momenti col primo senza candidati e gazebo, ma un dibattito sulla cultura politica e l’identità di un Partito democratico rifondato. Apriamolo questo confronto, parliamo a decine di migliaia di persone fuori da noi. Ancora Romano Prodi ha indicato un metodo, un pubblico dibattito sui temi che investono la vita quotidiana di famiglie, giovani, donne, imprese. Alla fine di quel percorso si voti un impianto, un progetto, e la leadership ne deriverà. Aveva ragione Norberto Bobbio ad ammonire la sinistra dei primi anni ’ 90: «Discutono del loro destino senza capire che dipende dalla loro natura. Decidano la loro natura e avranno chiaro anche il loro destino». Più chiaro di così!

La destra meloniana ha vinto senza rinunciare alle proprie radici, discutibili o meno. Un partito di sinistra deve saper parlare a tutti o deve rappresentare segmenti di società specifici?

Direi la seconda cosa e ho provato a spiegarne il perché. Quanto alla destra che ha vinto, adesso avrà l’onere di governare e sarà giudicata su questo. I dubbi e le preoccupazioni ci sono tutte, al netto del risultato. Definire la Costituzione «bella ma vecchia», augurare il successo ai post- franchisti spagnoli di Vox, guardare a Budapest e Varsavia piuttosto che a Berlino, Parigi o Bruxelles, più che una previsione è una premessa della scena che ci attende. Dinanzi a tutto questo noi faremo l’opposizione più corretta e intransigente.

Per lei Giuseppe Conte è un pezzo di sinistra di questo paese o resta il rappresentante di un populismo qualunquista?

Ho rispetto verso la persona e ciò che ha fatto al governo da premier durante la pandemia. Detto ciò non credo sia di sinistra, e nemmeno progressista, il suo mettersi in posa col cartello dei decreti sicurezza di Salvini, ma penso che il reddito di cittadinanza sia stata una misura sociale che ha impedito a moltissime famiglie di precipitare nella povertà. Neppure ho mutato opinione sull’errore compiuto nel far cadere Draghi. Credo che in lui fosse ferma la determinazione ad andare al voto in solitudine per capitalizzare il profilo di un movimento non troppo compromesso con le logiche del governo. In questo è stato abile. Ora si apre una nuova stagione e spero che tutte le forze alternative a questa destra trovino il filo di un dialogo che pareva spezzato. Il mondo non è tutto e solo in bianco e nero. Spesso è nel grigio della mediazione e del riconoscere le ragioni degli uni e degli altri che si trova il sentiero migliore.

La fine del fronte giallo- rosso è stata un errore o una conclusione inevitabile dopo la mancata fiducia a Draghi?

In quel passaggio è parsa una scelta obbligata e tutti, sottolineo tutti, ne abbiamo pagato il prezzo. Ma insisto, adesso inizia una nuova stagione, la mia speranza è che tutti dimostrino di esserne all’altezza.