Far rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato. È questa la definizione che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione danno della vittimizzazione secondaria, un fenomeno ancora invisibile ma diffusissimo, non solo nella società civile, ma anche - e soprattutto - nelle aule dei Tribunali. Dove a rendere la donna vittima una seconda volta sono le stesse procedure istituzionali, i pregiudizi culturali e gli stereotipi. E così le stesse autorità che dovrebbero reprimere il fenomeno della violenza finiscono per non riconoscerlo o sottovalutarlo, non adottando nei confronti della vittima le necessarie tutele per proteggerla da possibili condizionamenti e reiterazione della violenza.

Secondo la Raccomandazione numero 8 del 2006 del Consiglio d’Europa, «vittimizzazione secondaria significa vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell'atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima». Un fenomeno che in Italia si verifica, in sede civile, nella quasi totalità dei casi: la violenza semplicemente non viene riconosciuta e confusa con il “conflitto”, riducendo il tutto ad una mera dinamica disfunzionale. Ma anche in sede penale - quando la violenza viene invece indagata, perché oggetto del procedimento - si assiste a fenomeni simili.

E a ricordarlo è la Cedu, che lo scorso anno ha condannato l’Italia per aver esposto una donna, attraverso le motivazioni di una sentenza assolutoria per il reato di violenza sessuale di gruppo, ad una nuova violenza, con valutazioni arbitrarie circa le scelte sessuali e i comportamenti personali non rilevanti per la sua attendibilità. «La Corte - si legge nella sentenza dei giudici di Strasburgo - considera che la lingua e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello veicolino preconcetti sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare l'effettiva tutela dei diritti delle vittime di violenza contro le donne, nonostante un quadro legislativo soddisfacente».

Insomma, nelle parole di quei giudici la Cedu intravede un problema culturale per il nostro Paese. Il caso riguardava un procedimento penale contro sette uomini accusati di stupro di gruppo, sei dei quali condannati in primo grado e poi assolti dalla Corte d'appello di Firenze. Una decisione legittima, ma assunta attraverso «ingiustificati commenti» riguardanti la bisessualità della presunta vittima, le sue abitudini e le relazioni sessuali occasionali intrattenute prima del presunto stupro di gruppo. Proprio i procedimenti penali per casi simili, secondo i giudici europei, giocano un ruolo fondamentale nel superamento dei pregiudizi e per la risposta istituzionale contro le diseguaglianze di genere, motivo per cui è «quindi essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni dei tribunali, minimizzando la violenza di genere ed esponendo le donne a una vittimizzazione secondaria, formulando commenti che inducono il senso di colpa e giudizi in grado di scoraggiare la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario».

Ma c’è di più: da Strasburgo era arrivato un monito alle autorità, ricordando come l'obbligo di proteggere le presunte vittime di violenza di genere impone anche il dovere di proteggere la loro immagine, dignità e vita privata, anche attraverso la non divulgazione di informazioni personali e dati estranei ai fatti. «Di conseguenza, il diritto dei giudici di esprimersi liberamente nelle decisioni, che è una manifestazione dei poteri discrezionali della magistratura e del principio di indipendenza giudiziaria - sostiene la Cedu -, è limitato dall'obbligo di proteggere l'immagine e la vita privata delle persone che si presentano dinanzi ai tribunali da qualsiasi ingiustificata interferenza».

Dalla relazione elaborata dalla Commissione Femminicidio, presieduta dalla senatrice Valeria Valente (Pd), ciò che emerge «è un quadro chiaro di violenza negata perché non riconosciuta da avvocati, magistrati, servizi sociali, consulenti tecnici e quindi di vittimizzazione secondaria delle donne che la subiscono e dei loro figli da parte delle istituzioni, con esiti anche gravi quali l’allontanamento dei figli dalle madri che hanno denunciato e/o subito violenza e/o l’affidamento dei figli ai padri maltrattanti». La relazione è frutto di un’indagine approfondita, dalla quale emerge come dei 2089 procedimenti di separazione giudiziale con figli minori iscritti al ruolo nel trimestre marzo-maggio 2017 - oggetto dell’indagine della Commissione - un terzo presenta «allegazioni di violenza », cioè denunce o altre tracce di violenza fisica, psicologica o economica (da verificare durante l’iter processuale) da parte di uno o di entrambi i genitori ai danni dell’altro genitore o dei figli. Nell’86,9% dei casi si tratta di violenze lamentate dalle mogli, solo nel 5,9% dei casi dal marito e nel 7,1% dei casi da entrambi i coniugi. Nel 18,7% dei casi, la violenza riguarda anche direttamente i figli e in gran parte viene agita dai padri (13,6% contro il 4,5% delle madri). Ma quasi nel 60% dei casi la violenza scompare dalle verbalizzazioni e non viene effettuato nessun approfondimento. Le conseguenze più gravi si realizzano nei procedimenti di affidamento dei minori, all'interno dei quali le madri hanno denunciato episodi di violenza domestica: spesso i padri, davanti al rifiuto dei figli di incontrarli, accusano le madri di alienazione parentale e di violazione del principio di bigenitorialità.

Una sindrome teorizzata nel 1985 da Richard Gardner, priva di validità scientifica e mai riconosciuta come sindrome dai manuali diagnostici internazionali in materia. Formalmente, dunque, non esiste. Ma tale argomento viene spesso utilizzato in tribunale per ridurre la violenza tra le mura familiari a semplice conflitto tra genitori, con conseguenze dannose per donne e bambini. Ma a mettere una pietra tombale su tale sindrome - nonostante i tentativi di una parte della politica di dare dignità a tali teorie - ci ha pensato la Cassazione, con il caso di Laura Massaro: la Suprema Corte ha infatti condannato l’alienazione parentale, ricordando che «il rispetto al diritto della bigenitorialità» è un «diritto del minore» e non dei genitori.

Al primo posto, in ogni caso, c’è e ci deve essere sempre il supremo interesse del minore. Qualsiasi diritto del genitore, dunque, cede il passo al diritto fondamentale del bambino all’integrità fisica e alla sicurezza. E proprio per tale motivo, suggerisce la relazione firmata da Valente, occorre vietare il prelievo forzoso dei minori al di fuori delle ipotesi di rischio di attuale e grave pericolo per l’incolumità fisica del minore stesso. Se da un punto di vista procedurale la soluzione è formare al meglio le persone coinvolte e prevedere attività istruttorie e accertamenti tecnici per far emergere gli episodi di violenza, da un punto di vista culturale, ha spiegato Valente in un’intervista al Dubbio nei giorni scorso, inasprire le pene non basta. «Porta consenso ai politici, ma non risolve il problema, altrimenti i dati della violenza non sarebbero quelli che sono», ha evidenziato. La formazione deve partire dalle scuole, le Università devono dedicare ore curriculari alla lettura della violenza. Ma serve, soprattutto, un’assunzione di responsabilità collettiva. Ancora oggi, però, «oltre la metà degli italiani pensa che una donna che subisce violenza se la sia cercata, in qualche modo. Per questo io direi che, oltre ad aiutare di più e meglio i centri antiviolenza, che hanno sempre poche risorse, è necessario fare campagne di sensibilizzazione che facciano capire che oggi una delle principali cause di morte per donne in una certa fascia d’età è essere nate donne. E non è accettabile».