La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario sarebbe dovuta approdare nell’Aula della Camera lunedì 28 marzo, ma molto probabilmente non sarà così. Solo oggi infatti ci sarà l’attesa riunione di maggioranza, convocata dal ministro per i Rapporti con il Parlamento D’Incà, alla quale parteciperà, tra gli altri, il presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni e molto probabilmente la stessa guardasigilli Marta Cartabia. L’obiettivo è mettere d’accordo le forze di maggioranza: permangono divisioni su alcuni temi.

Molti subemendamenti, inoltre, si discostano parecchio dall’impianto proposto dal governo. È vero che le proposte di modifica sono state dimezzate, in uno spirito di collaborazione richiesto proprio da Perantoni, ma sarà difficile far mollare la presa sui punti che vengono pensati come linee Maginot. Intanto ieri Conte ha incontrato i suoi deputati della commissione: no per tutti alle porte girevoli, no alla separazione delle funzioni, no alle norme sulla presunzione d’innocenza portate avanti dal centrodestra. Dato questo scenario è dunque impossibile che in soli due giorni il governo esprima un parere e si voti in commissione per poi arrivare in Aula.

Ma come si è arrivati a questa compressione e compromissione del dibattito? Questa forse è la riforma più importante: dovrebbe risanare l’immagine della magistratura dopo il caso dell’hotel Champagne e le degenerazioni del correntismo. Eppure si teme che la montagna partorirà un topolino, un testo debole che si limiti a procurare un nuovo sistema di voto per il prossimo Csm. Se le responsabilità siano da addebitare al governo, ai partiti o a entrambi, è difficile da capire. Noi proviamo a riannodare il nastro.

La riforma è stata più volte evocata dal presidente Mattarella, già dal 2019: la riconquista di credibilità, indipendenza e totale autonomia dell’ordine giudiziario «confido che avverrà - disse - anzitutto sul piano, basilare e decisivo, dei comportamenti» ma anche con «modifiche normative». E poi? La riforma è stata approvata in Cdm nell’agosto 2020, durante il governo Conte 2, Ministro della Giustizia era Bonafede. Il disegno di legge AC 2681 è stato poi presentato alla Camera il 28 settembre 2020. L’esame in commissione Giustizia è partito il 14 ottobre. Solo il 21 aprile 2021 il ddl Bonafede venne adottato come testo base. Intanto si era già insediato il governo Draghi e un mese prima la guardasigilli aveva tenuto il suo discorso alla Camera. Era stata chiara: «Le note, non commendevoli, vicende che hanno riguardato la magistratura rendono improcrastinabile anche un intervento di riforma di alcuni profili del Csm e dell’ordinamento giudiziario, anche per rispondere alle giuste attese dei cittadini verso un ordine giudiziario che recuperi prestigio e credibilità».

Il termine "improcrastinabile" non lascia dubbi interpretativi, eppure questo stesso governo ha depositato i propri emendamenti quasi un anno dopo, il 25 febbraio 2022. In tutti questi mesi a cosa abbiamo assistito? A fine maggio 2021 si sono conclusi i lavori della Commissione ministeriale presieduta da Massimo Luciani, a cui seguì il 4 giugno un incontro della ministra con i capigruppo di maggioranza in commissione Giustizia per spiegarne i punti principali. La relazione non fu accolta molto bene a partire dal voto singolo trasferibile fino alla permanenza delle porte girevoli. Intanto il 9 e il 15 giugno la commissione Giustizia della Camera si riunì: in attesa dell’emendamento del governo al testo base, vennero presentati 400 emendamenti di partito. Nel frattempo vengono approvate durante l’estate le riforme del processo penale e civile.

La successiva riunione sul Csm arriva solo il 2 dicembre, su input di Zanettin (FI) e Costa (Azione). Tutto si era fermato in attesa del governo. In quella occasione proprio Zanettin fece notare che «si sono svolti finora solo due incontri presso il ministero della Giustizia, nel corso dei quali è stato appena affrontato il tema del sistema elettorale che, per quanto spinoso, non è certamente l’unico importante». Altri quattro giorni ed è la stessa ministra, dopo averne discusso anche con il premier Draghi, a rassicurare: la riforma del Csm è «imminente».

Il 9 dicembre Cartabia incontra nuovamente i partiti, ma da quello che ci raccontano le delegazioni si tratta di un altro summit interlocutorio in cui la guardasigilli ascolta le proposte e illustra verbalmente la sua idea di riforma. Sul tavolo nessun testo. Quest’ultimo, annunciato durante le festività natalizie, è poi slittato: tutto congelato in attesa dell’elezione del Capo dello Stato. Il perché non è mai stato chiarito: alcuni sono arrivati a supporre che abbia pesato la possibile elezione di Cartabia al Colle, per altri una riforma divisiva avrebbe reso ancora più complessa la trattativa quirinalesca. Sta di fatto che solo l’ 11 febbraio il testo del governo verrà approvato in Cdm, ma giungerà in commissione il 25, perché bloccato dalla Ragioneria di Stato.

Inizia la corsa dei partiti ai subemendamenti. Altro scoglio: sono troppi, bisogna tagliare altrimenti la riforma è a rischio. Su tutto pesano le parole di Draghi che aveva detto di non voler porre la fiducia. Ma se si andrà avanti di questo passo si corre davvero il rischio, ipotizzato dall’onorevole Enrico Costa, che per l’ennesima volta si metterà in campo «il classico schema per dribblare il Parlamento».