«Forse non è chiaro: è una prospettiva di una gravità inaudita. Un attacco agli equilibri democratici costituzionali. Contro la norma che potenzialmente consegna l’intero Csm nelle mani delle Procure faremo le barricate, saremo implacabili. E crediamo al fianco dell’Unione Camere penali possa schierasi l’intera avvocatura, innanzitutto la sua rappresentanza istituzionale. Perché è chiaro che se tu al Csm non hai, come invece avviene adesso, un numero di togati giudicanti pari al doppio dei requirenti, se alteri la proporzione e addirittura arrivi a un quasi monocolore dei pm, cambi la natura stessa di un organo che ha rilievo costituzionale. Ma scherziamo?».

Solo Gian Domenico Caiazza ha tempestivamente individuato il tema più paradossale fra i tanti sollevati dalla riforma del Csm: si è parlato del sorteggio residuale, dell’addio alle porte girevoli, anche del blando intervento per scoraggiare i fuori ruolo. Ma nessuno rileva, se non appunto il presidente dell’Ucpi, come «eliminare, per i magistrati da eleggere al Csm, la distinzione tra le categorie giudicante e requirente rischi di produrre una netta prevalenza della seconda. Un assurdo mai visto».

È elevato il rischio di un esito simile?

Basta guardare a cosa accade all’Anm: i pm sono i più mediatici, i più politici, e predominano nettamente. È grave anche in quell’ambito, però è inevitabile che un componente dell’Associazione magistrati ribatta che loro, sul piano politico associativo, si organizzano come gli pare. Ma il Csm è un organo di rilevo costituzionale, e il meccanismo del consenso tra i magistrati non cambia: i pm restano i più noti, i candidati dalla maggiore visibilità.

Come è possibile che la maggioranza di governo abbia sottovalutato un rischio del genere?

Non sembra un colpo studiato ma appunto una mancata consapevolezza degli effetti, va detto. In una recente intervista, al ministro della Giustizia Bonafede è stato chiesto proprio della nostra obiezione sull’assenza di separazione per funzioni, fra i magistrati da eleggere al Csm. Ha risposto con la necessità di scongiurare risultati analoghi a quelli dell’ultima tornata per l’elezione dei togati, quando le quattro correnti maggiori candidarono un solo magistrato ciascuna visto che i posti erano proprio quattro. Tutti i candidati, cioè, erano certi dell’elezione già in partenza. Ma non è che per evitare di avere quattro eletti scontati ti esponi al rischio di avene venti tutti del settore requirente. Parliamo di una categoria di magistrati che rappresenta solo il 20 per cento del totale.

E se pur di mantenere i 19 collegi si preferisse esporsi al rischio che in ciascuno di questi sia eletto un pm?

Ripeto, come Unione Camere penali siamo pronti a fare le barricate, assumeremo ogni possibile iniziativa. E tengo a dire che credo si tratti di un problema per l’intera avvocatura, che possa dunque determinare la mobilitazione anche dell’avvocatura istituzionale, proprio perché parliamo di equilibri democratici costituzionali. Non si tratta di un dissenso legato alla contrapposizione funzionale dei penalisti nei confronti del pubblico ministero, non è certo questo il piano della questione.

In un documento molto critico sulla riforma, Md parla di possibile burocratizzazione, legata tra l’altro ai criteri rigidi previsti per le nomine: condivide?

Condivido l’idea che possa verificarsi un ripiegamento burocratico, ma credo anche che sia del tutto illusoria l’efficacia di simili strumenti come argini al clientelismo. Si è cercato di oggettivizzare i criteri, ma se tu ne introduci 15 tutti indipendenti fra loro, semplicemente le diverse cordate enfatizzeranno di volta in volta il parametro più confacente alla scelta precostituita. Credo sia invece drammatico constatare come sul fronte del merito non si sia sciolto il vero nodo, quello delle valutazioni di professionalità, al 99 per cento sempre positive. Non è possibile, si tratta di un caso unico al mondo. Va invece creata una categoria di eccellenti tra i quali individuare i capi degli uffici. Non si può restare ancorati all’idea che ha seppellito il meccanismo delle valutazioni di merito, secondo cui si tratterebbe di un condizionamento sull’operato del giudice. Una iperbole egualitarista tipica degli anni Settanta, che non è stato più possibile correggere.

E che forse spiega anche l’immediata reazione ostile di vari gruppi della magistratura alla concessione, prevista dalla riforma, di un semplice diritto di tribuna agli avvocati in queste valutazioni.

Sì, si tratta del diritto introdotto, finalmente, per gli avvocati e per l’accademia, di assistere alle sedute dei Consigli giudiziari in cui si approvano i pareri sulla professionalità dei singoli magistrati, pareri da inviare al Csm. Non c’è diritto di voto, appunto, ma solo di assistere. E pure dà fastidio, perché l’avvocato continua a essere visto da una parte della magistratura come un elemento inquinante della giurisdizione. Una resistenza in realtà assolutamente coerente con la rinuncia al merito di cui sopra. Oltretutto la rinuncia a valutazioni vere, attendibili, modulate sul merito reale, porta a paradossi come il ritorno dell’anzianità quale criterio oggettivo per la scelta dei capi. Oltre a favorire la burocratizzazione, qui si va contro l’insegnamento della vicenda di Giovanni Falcone, a cui fu preferito Antonino Meli, che aveva appunto nell’età il proprio unico punto di vantaggio.

In ogni caso lei dice che l’irrigidimento della griglia valutativa non consentirà di evitare gli accordi.

Sì, sia perché basterà individuare tra i diversi criteri oggettivi quello più adattoi al magistrato sul quale le correnti si sono di fatto già accordate, sia perché proprio il velo della presunta oggettivizzazione renderà più sofisticati e giustificabili quegli accordi tra le correnti.

Ma le correnti sono da spazzare via?

Ecco, quanto appena detto non rimanda affatto a un’idea liquidatoria dell’associazionismo giudiziario. Tutt’altro. Un conto è la degenerazione del correntismo, altro è la sacrosanta articolazione della magistratura in gruppi che esprimono diverse visioni politiche della giurisdizione. Parliamo di una funzione essenziale della democrazia, ed è impensabile che non possa e non debba essere declinata secondo culture diverse. Da un simile punto di vista, le correnti non possono essere liquidate: vanno preservate soprattutto da quella stessa furia iconoclasta che venticinque anni fa finì per abbattersi sui partiti. C’era il problema della partitocrazia, se ne approfittò per trascinare via anche il sacrosanto diritto all’associazionismo politico. Non si può essere complici di chi persevera ancora in quell’errore.