Antonio D’Amato, consigliere togato del Csm di Magistratura Indipendente, già procuratore aggiunto a Santa Maria Capua Vetere, nel 2007 al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, la settimana scorsa è tornato ad occuparsi di carceri. Con il suo voto a favore ha contribuito a dare il via libera al parere del Csm sul decreto legge “Cura Italia”.

Dottor D'Amato, lei ritiene che la notizia del primo detenuto morto per coronavirus possa provocare nuovamente delle rivolte in carcere?

Si tratta sicuramente di una notizia allarmante. Sono sicuro che l’Amministrazione penitenziaria ha già adottato e sta adottando tutte le misure necessarie per prevenire il diffondersi del contagio, anche a tutela del personale di polizia penitenziaria, particolarmente esposto. Certo, il carcere è un ambiente “chiuso”, e non si possono escludere strumentalizzazioni dei gruppi mafiosi volti a sobillare una intera comunità carceraria. Occorre essere vigili.

Gli scienziati ritengono che i positivi reali sono molti di più di quelli individuati fino ad ora. Potrebbe essere così anche in carcere?

Tutte le statistiche in genere soffrono delle cosiddette cifre oscure, ovvero dei dati che non emergono. Ecco perché quello a cui bisognerebbe tendere, dal 15 aprile in poi, è un monitoraggio diffuso e capillare attraverso i tamponi. Non soltanto per i detenuti ( a cominciare proprio da quelli che stanno per essere scarcerati) e per il personale di polizia penitenziaria; ma anche per i magistrati più esposti, come quelli della Sorveglianza.

Cosa ne pensa di alzare da 18 a 24 mesi il residuo di pena per accedere ai domiciliari? Non è una questione che si gioca sulla contrapposizione semplicistica e sbrigativa e, perciò fuorviante, “tutti fuori, tutti dentro”. Il problema è un altro: sappiamo valutare quali sono le conseguenze dell'allargamento dei beneficiari dei provvedimenti di detenzione domiciliare? Se è fondato il timore della diffusione del contagio all'interno delle carceri, bisogna porsi il problema dello spostamento dell’eventuale contagio dal carcere all’esterno. Si tratta di tutelare le famiglie dei detenuti. Questo è il tema.

Ma in carcere ci sono situazioni di promiscuità, dato il sovraffollamento, che nelle abitazioni non ci sono.

È vero, ma, in primo luogo per risolvere il sovraffollamento servirebbe la costruzione immediata di nuovi istituti penitenziari e l’attività edilizia potrebbe, in questo momento, costituire anche un volano per l’economia. In secondo luogo, come abbiamo detto nel parere approvato dal Plenum del Csm lo scorso 26 marzo, si potrebbero adottare interventi legislativi per differire l’ingresso in carcere di condannati a pene brevi, per reati non gravi, fino alla fine dell’emergenza.

In attesa che i braccialetti elettronici vadano a regime, data la situazione emergenziale, non sarebbe il caso di bypassare la relazione su pericolosità e reiterazione del reato per concedere la misura alternativa? In fondo chi si giocherebbe tutto se gli rimane poco da scontare.

In mancanza dei braccialetti, in effetti, sarebbe più opportuno che chi ha la responsabilità politica dica: tutti i condannati con residuo pena fino a 24 mesi ( eccezion fatta per i delitti gravi o di allarme sociale) finiscono di scontare la pena in detenzione domiciliare. Questa scelta politica consentirebbe di sgravare il lavoro dell’autorità giudiziaria, in questo momento molto difficile dell’emergenza da Covid19.

In una proposta di emendamento del Cnf inoltrata al ministro Bonafede, si chiede di sospendere in maniera esplicita il termine dei 30 giorni che, una volta ordinata la carcerazione, consente di chiedere le pene alternative. Tanto più che i servizi sociale a cui chiederle ora sono chiusi.

Il Decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020 il “Cura Italia” prevede la sospensione dei termini processuali. Non escludo che la norma possa già essere interpretata in questa direzione; basterebbe un chiarimento proveniente dal ministero della Giustizia.