In una vetrina di una “città- mondo” come Shanghai si espone un vassoio di pasticcini a forma di cagnolini. Mia figlia Caterina, disegnatrice di moda, a Shanghai per lavoro, li ha fotografati e me li ha inviati, pensando al piccolo saggio sui “canivori” che avevo scritto sul festival della carne di cane che si celebra a Yulin, una città cinese nella provincia del Guanxi, nel volume intitolato Minima Culinaria ( Firenze, 2015).

Da qualche anno a Yulin è cominciata una contestazione di una pratica alimentare che viene da lontano e che ha radici profonde in Cina e nei paesi dell’Asia orientale, dalla Corea al Vietnam. Nelle città più secolarizzate e cosmopolite, mangiare carne di cane è un’abitudine in calo, ma nelle campagne alimenta un’industria non indifferente. Con il supporto delle organizzazioni animaliste americane la pratica dei “canivori” viene contestata anche davanti al Parlamento della Corea del Sud, a Seul, dove da anni giace un disegno di legge, proposto dal parlamentare Pyo Chang- won, ma appoggiato anche dal Presidente Moon Jae- in, per mettere fine all’uccisione di cani e di gatti per fini alimentari. Persino l’attrice Kim Basinger ha partecipato, vestita di nero, alla contestazione, ma, poco lontano dagli attivisti animalisti, c’erano i manifestanti pro- carne di cane. Queste credenze affondano le radici nella teoria dell’equilibrio o dell’opposizione fra yin e yang, femmina e maschio, nero e bianco, nord e sud, caldo e freddo. Sono principi che si ritrovano anche nelle teorie medico- alimentari dell’Europa fra medioevo e Rinascimento. La credenza della carne di cane “fredda” nel tempo del caldo estivo risponde ad un complesso sistema di bilanciamento e non tiene conto della crudeltà della pratica, che prevede addirittura un supplemento di privazioni e sofferenze per rendere la carne canina più adatta all’uopo. Nessuno, però, in Occidente, dovrebbe scandalizzarsi più di tanto pensando alla fine dei porcellini o a quella delle oche. Si tratta semmai di un’evoluzione lenta verso costumi alimentari più rispettosi degli animali, senza l’aggiunta di crudeltà dettate da pratiche antiche o da moderne, ma non meno crudeli, pratiche di allevamento.

In questo senso i pasticcini a forma di cane nelle vetrine di Shanghai sono il segno di un’evoluzione di civiltà. Oggi, però, la notizia più clamorosa, sulla scia della pandemia del Coronavirus che ha colpito la Cina e poi il mondo globalizzato, sta nel fatto che l’Assemblea Nazionale del Popolo cinese intende limitare il commercio di animali selvatici. Ogni anno si stima che diversi milioni di cani vengano uccisi in Cina e specialmente nella regione di Guandong, nel nord- est del grande paese. Ormai la via istituzionale e politica per arrivare a proibire l’uso alimentare della carne di cani e gatti sembra aperta.

Probabilmente la carne di altri animali selvatici, compresi i pipistrelli all’origine del Coronavirus, potrebbe essere inclusa nella lista dei cibi proibiti. Sarebbe una rivoluzione culturale, assai più civile di quella di Mao.