Se la sinistra fa la destra non è detto che perda. È addirittura possibile che vinca. E che vinca bene, oltretutto, cioè con un ampio margine che le consenta di formare un governo non di minoranza o rabberciando alleanze fragili e instabili. È accaduto in Danimarca, dove i socialdemocratici di Mette Frederiksen hanno ottenuto circa il 26% dei voti mandando all’opposizione i liberal- conservatori di Lars Loekke Rasmussen che dal 2015, quando vinse con il 20%, governava con l’appoggio dei “sovranisti” del Dansk Folkeparti, crollato dal 21% al 10%. Un tonfo le cui avvisaglie erano nell’insuccesso registrato alle europee di due settimane fa, ma nessuno immaginava di tali proporzioni. Non è un mistero indecifrabile la vittoria della quarantunenne Frederiksen ( la più giovane premier della storia danese) che adesso, avvalendosi del buon risultato di altre forze compatibili, a cominciare dai Verdi, può raggiungere e superare forse la maggioranza di 90 seggi su 179, assicurandosi se non proprio una navigazione tranquilla, quantomeno non accidentata come si temeva alla vigilia della consultazione. Ha vinto con una formula semplice: senza calcare la mano sulle pulsioni xenofobe, pur presenti nella società danese, ha sottolineato che le politiche “morbide” sull’immigrazione - paradossalmente adottate dal suo predecessore non sappiamo con quanto sconcerto da parte dei suoi alleati rischiano di ridurre il Paese non in un centro di calda accoglienza, secondo le direttive dell’Unione europea, ma in una palestra di combattimento tra poveri: quelli “nazionali” e gli altri provenienti da lidi lontani. I primi mal tollerano l’idea, soprattutto nei distretti industriali e nelle periferie dei centri maggiori, che la “guerra” tra i bisognosi finisca per penalizzare soprattutto loro costretti a difendere il diritto ad un salario equo insidiato dagli immigrati che, per ovvie ragioni, sono oggettivamente i concorrenti principali accontentandosi di paghe più basse e, talvolta, di tutele inesistenti. Nessuno ha colto accenti razzisti nelle politiche sociali connesse all’immigrazione proposte dai socialdemocratici, per i quali la scommessa non era, a differenza di alcuni gruppi sovranisti europei, il “primato dei danesi”, ma il contenimento degli ingressi extracomunitari che non possono essere soddisfatti decentemente. Su questo terreno è caduto il Partito liberale del premier uscente Rasmussen che ha raccolto il 23,4% (+ 3,9% rispetto al 2015), mentre gli alleati più marcatamente sovranisti hanno ceduto clamorosamente. A cominciare dal piccolo partito dell'Alleanza liberale, guidato dal ministro degli Esteri Anders Samuelsen, che ha ottenuto il 2,3%, e non entrerà nel nuovo Parlamento, finendo con la catastrofe politica dei populisti xenofobi del Partito del popolo danese ( Dansk Folkeparti), come s’è detto.

Entra invece con quattro seggi in Parlamento la Nuova Destra danese ( Nye Borgerlige), fondata dalla quarantunenne ( coetanea della Frederiksen) Pernille Vermund, che ha posizioni più radicali in tema di immigrazione e di contrasto all’Unione europea. I “cugini” di questo raggruppamento hanno pagato la politica equivoca espressa sullo stesso piano, peraltro abbandonando qualsiasi caratterizzazione sociale e lasciando nelle mani dei socialdemocratici la prospettiva di risanamento del Welfare che il liberale Rasmussen aveva demolito con l’iperliberismo peraltro indigesto a tutte le destre nazionali danesi, come a quelle scandinave in genere. C’è da osservare che la rapida ascesa del Nye Borgerlige, non diversamente dagli altri “fratelli” continentali, nato soltanto quattro anni fa, viene attribuita ad un sapiente e spregiudicato utilizzo dei social network attraverso i quali ha sparso a piene mani timori sull’immigrazione incontrollata ed ancor più sull’islamizzazione dell’Europa. Se la richiesta di “stretta” sull’ingresso degli extracomunitari è stata decisiva per l’affermazione della Frederiksen, non va sottovalutata la dura polemica contro politiche neo- liberiste e di austerity che curiosamente la spingono molto vicino alla destra più intransigente, che nel nostro lessico definiremmo “sociale”. Ma se ne distacca - ed è questo il “paradosso danese” - puntando a ridefinire il sistema fiscale con maggiori tasse gravanti sui ricchi ed il conseguente innalzamento della spesa pubblica soprattutto nella sanità e nell’istruzione.

Le destre, tanto la moderata quanto quella più “nuova” o forse estrema, sostengono invece l’ abbassamento delle imposte e l’avversione alla riduzione delle pensioni ( a cui è sensibile anche certa sinistra); mentre un altro punto di contatto tra gli “opposti” schieramenti sembra essere il blocco delle procedure di asilo per i rifugiati che non hanno un lavoro. Situazione complessa. Posto che il successo dei socialdemocratici - ma anche dei Verdi che hanno raddoppiato i voti ( dal 4 all’ 8%) inserendosi nella corrente ambientalista che attraversa l’Europa, tranne l’Italia - secondo i commentatori è dovuto anche all’accento posto sui mutamenti climatici e sulle conseguenze disastrose che essi determinano sia sulla salute dei cittadini che sull’economia ( l’ecosistema nel Mare del Nord è drammatico; le risorse ittiche diminuiscono con crescente rapidità; l’inquinamento è nocivo anche per il cruciale comparto dell’allevamento del bestiame: la Danimarca è tra i primi produttori europei di latte, burro, formaggi, suini, pollame). Quest’ultimo aspetto è stato considerato dagli elettori né di destra, né di sinistra. La Frederiksen l’ha enfatizzato, a differenza del suo avversario Rasmussen, cogliendo nella sensibilità degli elettori preoccupazioni crescenti meritevoli di essere rappresentate.

La sinistra, dunque, ha vinto agitando temi radicali di facile comprensione, tutt’altro che divisivi ( a parte la pressione fiscale) e mettendosi nella scia di chi considera, senza tema di essere accusato di razzismo, i pericoli che politiche migratorie non sempre accorte possono generare in società complesse dove l’austerità sta impoverendo tanto il ceto medio quanto quello operaio ( sia pure ridotto rispetto al passato). È una lezione di realismo politico quella che viene dal voto danese. E dimostra che con stereotipi ideologici usurati non si va da nessuna parte. I socialdemocratici “nuovi” rispetto alla sinistra tradizionale scandinava - ha tentato, riuscendoci, di essere al di là della destra e della sinistra. Nella prospettiva di evitare di finire nel gorgo della marginalità. E ha vinto la scommessa. La Danimarca, pur non facendo parte dell’eurozona, vanta un’ottima tenuta economica godendo di una crescita media del prodotto interno lordo del 2,2%, mentre la disoccupazione è al 3,7%. Il pericolo di perdere o veder assottigliare questo stato invidiabile ha indotto i danesi a correre ai ripari prima di scontrarsi con una realtà difficile da gestire.