Paolo Giambruno non era un prestanome dei boss, non c’erano contiguità con ambienti mafiosi e nessun collaboratore di giustizia ha mai sentito parlare di lui. Eppure per nove anni è rimasto su di lui il terribile sospetto che fosse una testa di legno di Salvatore Cataldo, considerato imprenditore mafioso di Carini, in provincia di Palermo.

Un dubbio spazzato via lo scorso 29 maggio, ma troppo tardi, perché intanto Giambruno, ex dirigente della Asp, lo scorso 3 agosto è morto. A riabilitarlo la decisione della sezione “Misure di prevenzione” del Tribunale di Palermo, che ha annullato il sequestro ordinato nel 2015, rigettando la richiesta di confisca e disponendo la restituzione di conti, immobili e quote delle srl Penta Engineering immobiliare, della Unomar, della Marina di Carini e della Nautimed alla moglie Dorotea Careri e ai figli Mario e Marcello.

Secondo i giudici, circa «l’ipotesi di pericolosità di Giambruno quale indiziato di appartenere al sodalizio mafioso, appare evidente che, alla luce del materiale probatorio, non vi sia traccia di alcuna condizione, oltre alla spregiudicata inclinazione di Giambruno a intrattenere numerose relazioni imprenditoriali ed economiche, non si registrano particolari contiguità con ambienti mafiosi». Insomma, non c’erano prove su quell’asserita contiguità che lo aveva portato a perdere beni e lavoro. «Si rammenta che nessuno dei collaboratori di giustizia sentiti scrivono infatti i giudici - ha dichiarato di conoscere Giambruno». La proposta di portargli via tutto definitivamente, dunque, «si rivela infondata».

Una conclusione alla quale i giudici sono arrivati analizzando alcune conversazioni «intercettate ma trascritte solo su iniziativa della difesa, dunque inizialmente non portate all’attenzione del Tribunale». Ma anche seguendo la scia dei soldi: «non vi sono flussi di denaro», dicono i giudici, tra Giambruno e Cataldo «ingiustificati e spiegabili solo con l’ipotesi di una fittizia intestazione», così come «non emerge nemmeno un rapporto di sudditanza o sottoposizione in favore del Cataldo». Il quadro complessivo, in altri termini, «è enormemente distante da quello che ci si sarebbe attesi di trovare in presenza di un’intestazione fittizia».

Insomma: Giambruno non era pericoloso, non poteva sapere della mafiosità di Cataldo, almeno non prima del 2008, anno in cui il primo collaboratore di giustizia parla di lui, facendolo finire a processo proprio nel 2010, non si registrano forme di contiguità con ambienti mafiosi e «men che mai tracce di un possibile contributo all’associazione come tale». Eppure l’accusa di essere un prestanome gli costò l'obbligo di soggiorno, la rimozione dall'incarico di capo di dipartimento e il sequestro di tutti i beni, dai conti bancari agli yacht di lusso. Fino alla fine, l'ex direttore del Dipartimento di prevenzione veterinario dell'Asp di Palermo ( poi sospeso dal direttore generale), nonché ex presidente dell'Ordine dei medici veterinari, si era dichiarato innocente.

La vicenda ha inizio nel 2010, spiega al Dubbio Daniele Livreri, avvocato della famiglia Giambruno, con la denuncia di un collega del veterinario. Una genesi «parecchio singolare» : il quadro di riferimento ha a che fare con reati contro la pubblica amministrazione e Giambruno, nel 2016, viene anche rinviato a giudizio con l’accusa di aver consentito dei controlli di favore a diversi commercianti. Ma da quella segnalazione, nel corso delle indagini, emerge un contatto sociale «alla luce del sole» con Salvatore Cataldo, soggetto in odor di mafia.

«La Digos - spiega Livreri - ritenne che Giambruno, anche dopo le indagini che hanno coinvolto Cataldo, avesse mantenuto un rapporto occulto con lui, con un’intestazione fittizia. Giambruno era socio, assieme ad un terzo soggetto, di Cataldo, che venne fatto uscire dalla società. Un’alienazione che, secondo la procura, era però una finzione». Nel corso del procedimento, però, gli avvocati di Giambruno si accorgono di quelle intercettazioni non trascritte e decidono di farlo autonomamente. E hanno ragione, perché il tribunale accorderà a quei dialoghi un significato fondamentale. «Salvatore Cataldo era già in carcere quando Giambruno e Giuseppe Cataldo, figlio di Salvatore, vennero intercettati - spiega Libreri - Da quel dialogo, uno dei tanti, emerse il disinteresse di Giuseppe Cataldo, se non nella misura in cui aveva effettuato dei lavori su degli immobili. L’unica cosa che gli interessava era esser pagato per quei lavori: di come venissero venduti gli immobili e a quanto non gli importava».

Ma non solo: «Perché intestare fittiziamente una società piccola quando Salvatore Cataldo ne aveva una più grossa, che fino alla fine è rimasta nella sua disponibilità? Nessuna. Le conversazioni smentiscono la ricorrenza di un’ipotesi di intestazione fittizia» . Quelle intercettazioni, scrivono i giudici nelle 89 pagine con cui hanno motivato il dissequestro, «erano dirimenti per dimostrare che tra Giambruno e Cataldo, già condannato per mafia, c’era sì un rapporto societario, ma alla luce del sole. Per quanto deprecabile possa apparire l’atteggiamento spregiudicato assunto da Paolo Giambruno – non solo per il palese svolgimento di attività imprenditoriali nonostante il ruolo di pubblico funzionario, ma anche nell’intrattenere rapporti economici ed imprenditoriali con il boss Cataldo – ciò non rivela pure che Giambruno si sia prestato a svolgere le funzioni di prestanome di Salvatore Cataldo».