Piercamillo Davigo - l’ex presidente dell’Anm, il giudice di Cassazione, l’attuale consigliere del Csm, insomma, una delle autorità della nostra magistratura - ieri, in Tv, intervistato da Goffredo Buccini del “Corriere della Sera”, ha rivendicato l’uso del carcere come strumento per far confessare gli indagati. Ha usato un giro di parole e un sorriso per affermare questo principio, ma lo ha affermato. «Confessa o resti in cella» Davigo dice che va bene così

Buccini lo ha portato a parlare del rapporto tra arresti e confessioni, riferendosi soprattutto ai metodi di indagine usati dal famoso pool mani- pulite negli anni novanta. Davigo, con una smorfia ironica, ha spiegato che loro non arrestavano per far confessare ma semplicemente scarceravano dopo la confessione.

Dalla smorfia di Davigo si capiva che il magistrato sa benissimo che non c’è una gran differenza tra le due cose. Gli piace giocare un po’ sulle parole, con destrezza.

I magistrati milanesi mettevano in prigione le persone e le tenevano lì finché non confessavano. Spiegando loro, durante gli interrogatori, che non potevano fare altrimenti, perché solo se confessavano si poteva star tranquilli che non ci fossero più rischi di reiterazione del reato. E in questo modo i Pm milanesi ottennero decine di confessioni, nessuno sa quanto spontanee e quanto veritiere ( ma ottennero anche qualche suicidio, che ancora brucia). Non ci vuole molto a capire che se ti trovi in cella, magari da un mese, o da due, e sei disperato, impaurito, pieno di angosce - e forse anche innocente - e ti fanno intuire, o ti dicono esplicitamente, che o confessi qualcosa ( e magari ti fanno capire anche cosa) o resti dietro le sbarre, beh è abbastanza probabile che prima o poi tu confessi. Quanto è attendibile una confessione ottenuta in questo modo? Poco, molto poco. Quanto è rispettoso della Costituzione e dello stato di diritto e del codice di procedura penale, e deidiritti dell’uomo, questo metodo? Poco, forse niente.

Vorrei fare una breve digressione, che potete pensare fuori luogo, ma io credo che invece c’entri qualcosa col ragionamento di Davigo.

Nel diciottesimo secolo, in Francia, fu eliminata la tortura dal sistema penale. Prima la tortura era ammessa, anche se regolata da norme molto precise e piuttosto rigorose. Che tra l’altro davano al torturato un piccolo vantaggio: se resisteva alla tortura era definitivamente e incontrovertibilmente assolto e il magistrato accusatore aveva perso. Fu eliminata - questo è il dettaglio più interessante - non perché considerata un metodo crudele e inumano. No, per un’altra ragione, più di dottrina. Perché fu stabilito che non potevano mescolarsi gli strumenti di indagine e la pena. Dovevano restare assolutamente distinti e distanti. Mentre la tortura, indubitabilmente, era una pena. Quindi non poteva valere ai fini dell’indagine.

Certo, la tortura fisica era molto molto dura e sanguinosa, e non è paragonabile alla detenzione in una prigione italiana del ventunesimo secolo. Quando si dice che la detenzione è una tortura si usa una metafora ( o, almeno, per comodità di ragionamento, ammettiamo che sia così). Resta il fatto che indiscutibilmente la detenzione è una pena. Pena addirittura identica a quella che poi si deve scontare se si è riconosciuti colpevoli dopo il terzo grado di giudizio. La cella è quella, le condizioni della prigionia son quelle. Possibile che in Italia, nel ventunesimo secolo, non si sia ancora arrivati a comprendere, o a riconoscere, e ad attuare un principio che i francesi affermarono più di 250 anni fa? E possibile che una persona colta e sensibile come Piercamillo Davigo non avverta questo problema come problema serio e reale?

Il problema generale è quello della liceità della detenzione preventiva, se non in casi estremi. Il diritto e le leggi prevedono che sia così. Prevedono che l’indagato sia considerato innocente e che il suo arresto possa avvenire solo per ragioni particolarissime. Però sappiamo che questo non avviene. La detenzione preventiva è molto, molto usata. Quasi il 40 per cento degli attuali detenuti non ha subito una condanna definitiva. Le statistiche ci dicono che più della metà di loro risulterà innocente. Parliamo di decine di migliaia di persone innocenti in prigione.

Possibile che di fronte a questi problemi e a queste cifre indiscutibili, una personalità come quella di Davigo possa limitarsi, in una intervista Tv, a lamentarsi - come ha fatto - perché in Italia troppi pochi condannati scontano effettivamente la pena?

Dopodiché devo ammettere che l’intervista di Buccini e di Formigli ( si è svolta nel programma Piazza Pulita della 7) a Davigo è stata molto divertente. Davigo sicuramente è l’esponente più radicale dello schieramento giustizialista, ma è comunque una persona colta e anche spiritosa. Non solo: sicuramente è un uomo libero ( sono quelli che finiscono sotto il suo martello, spesso, a non essere più liberi…) e infatti su molti argomenti ha picchiato duro sul governo e anche sul movimento dei 5 Stelle che pure, notoriamente, è un movimento davighista. Ha liquidato il condono, ha liquidato la “daspo” anticorruzione, ha liquidato la riforma della prescrizione, ha liquidato soprattutto la proposta di riformare le norme sulla legittima difesa. Ha fatto notare che se uno spara a qualcuno che scappa disarmato, e il proiettile entra dalla schiena e uccide il poveretto, non c’è legge che possa impedire di processare quel tale per omicidio. E ha anche ricordato che la legge sulla legittima difesa ( prima ancora che fosse modificata e resa più lasca, nel 2006, quando ministro era un leghista) era stata scritta non da un pericoloso anarchico amico dei ladruncoli, ma da Alfredo Rocco, ministro della giustizia di Mussolini.

Detto tutto questo, il problema del rapporto tra arresti e confessione resta drammaticamente in piedi. L’idea che un membro del Csm ritenga legittimo usare le manette per indurre gli indagati a “cantare”, getta un’ombra cupa, molto chupa, sul nostro stato di diritto.