Sull’Affaire Moro pongo una serie di interrogativi. Ho fatto l’errore di non partecipare alla Commissione presieduta da Fioroni per cui è possibile che la cosa mi sia sfuggita, ma non mi risulta che abbia invitato il presidente Prodi a riferire. Nessuna persona può ancora credere che fu una seduta spiritica quella che diede il nome di Gradoli: a tanti anni di distanza Prodi potrebbe dire chi gli diede quell’indicazione. Caso Moro: il gelido Andreotti, l’irresoluto Zaccagnini, il colto Galloni

Leonardo Sciascia fu profetico due volte: in Todo modo anticipò che l’Italia sarebbe stata teatro di assassini politici, in

L’Affare Moro affermò che l’assassinio di Moro sarebbe stato l’inizio della decerebralizzazione della Dc che infatti si srotolò in modo inesorabile nel corso degli anni 80 per cui il partito arrivò del tutto impreparato al crollo del comunismo russo e di quello dell’Europa dell’Est. Andreotti, Forlani, Fanfani, i dorotei, lo stesso De Mita tramutarono le loro correnti in gruppi di potere che risucchiarono in questa involuzione anche Bettino Craxi che nel 1991 non ebbe il coraggio politico di provocare elezioni anticipate e così espose sé stesso, i partiti laici, il centro- destra della Dc all’attacco del circo mediatico- giudiziario che risparmiò la sinistra Dc e che fu utilizzato dal Pds di Occhetto e di D’Alema.

L’unico leader della Dc che in qualche modo intuì che il crollo del comunismo avrebbe creato enormi problemi anche alla Dc fu Francesco Cossiga, che da un certo momento in poi si difese svolgendo in prima persona il ruolo di contestatore del suo partito originario con il quale entrò in rotta di collisione.

Aldo Moro - il cui retroterra culturale era di grande spessore, risaliva alla Fuci ( l’organizzazione degli universitari cattolici), ai rapporti con Monsignor Montini, alle riflessioni filosofiche di Maritain e a quelle politico- giuridiche di Giuseppe Dossetti e che svolse un ruolo di rilievo già nell’assemblea Costituente - combinò insieme il realismo politico, la sapienza tattica, lo sforzo di analisi della società italiana fino alla sua ricerca sul ’ 68 e la contestazione giovanile. In ogni caso la sua convinzione di fondo era che la politica è per larga parte mediazione. Non a caso quando nel 1959 i dorotei disarcionarono Fanfani da presidente del Consiglio e da segretario della Dc essi elessero come segretario Aldo Moro per evitare che l’operazione apparisse una pura e semplice operazione di potere.

Così Moro fu il protagonista di entrambe le “aperture” sul terreno delle alleanze operate dalla Dc, il centro- sinistra con il Psi e l’unità nazionale con il Pci: in entrambe le occasioni tracciò le prospettive culturali e programmatiche dell’operazione, ma lavorò sempre con grande attenzione per salvaguardare gli aspetti fondamentali del sistema di potere della Dc.

Fu contro un uomo di questo rilievo che le Br sferrarono il loro colpo e non sbagliarono certo il bersaglio: come scrisse lo stesso Moro in una delle sue drammatiche lettere, il suo sangue si riversò proprio sul gruppo dirigente del partito che non fece nulla per salvarlo.

Come è noto il primo bersaglio preso in considerazione dai brigatisti fu Giulio Andreotti, ma lo trovarono così “blindato” che rinunciarono.

Perché Moro non era altrettanto “blindato” e aveva una scorta numerosa ma non dotata nemmeno di una macchina blindata? Perché nelle settimane precedenti al sequestro, Moro e il suo caposcorta Leonardi furono assai inquieti, misero sotto osservazione un giovane russo che d’improvviso aveva iniziato a frequentare le sue lezioni all’Università e che poi si volatilizzò tornando nel suo paese, e perché non furono prese misure più adeguate?

Questo è il primo interrogativo da porsi. Ciò detto è inutile tergiversare: qualche ora dopo che Moro era stato rapito e la sua scorta massacrata il gruppo dirigente del Pci al completo, il gelido Andreotti, l’irresoluto Zaccagnini, il coltissimo Giovanni Galloni lo diedero per morto e si attestarono tutti sulla linea della più assoluta fermezza. Ma la teoria della fermezza coprì una prassi fondata sull’inerzia. Questa inerzia è tanto più evidente se si fa il paragone con quello che fu fatto successivamente per liberare il generale Dozier: con il permesso del governo si ricorse alla tortura e tramite stringenti interrogatori fu indentificato il covo, e i Nocs intervennero senza spargimenti di sangue. Nulla di tutto ciò avvenne durante la detenzione di Moro.

Però quello che non si aspettavano il gruppo dirigente del Pci, il gelido Andreotti, il ministro degli Interni Cossiga, i dirigenti morotei della Dc era che Moro rompesse il silenzio e cercasse disperatamente di salvarsi inviando lettere di straordinaria forza politica e morale.

Fu di fronte all’appello sconvolgente contenuto in quelle lettere che Craxi decise di muoversi e di rompere l’omertà del ceto politico dell’arco costituzionale. Craxi consultò uno per uno tutti i dirigenti del Psi per conoscere il loro parere: tutti dissero di sì all’iniziativa per salvare Moro, tranne Pietro Nenni che avanzò qualche riserva. Così Craxi lanciò un primo messaggio.

Ancora mi vengono i brividi nella schiena quando Craxi mi chiamò nella sua stanza e mi fece leggere la prima lettera di Moro che ringraziava i socialisti: il nostro colloquio fu breve e quando ci alzammo in piedi Bettino mi abbracciò e in preda ad una fortissima emozione mi disse: «Noi non siamo comunisti, faremo di tutto per salvarlo».

Ma Bettino era un gigante della politica: dopo di lui ho conosciuto molti nani, qualche ballerina, un autentico mascalzone che prima ha fatto il magistrato e poi è sceso in politica, quindi un altro personaggio fuori dal comune come Berlusconi.

Ciò detto pongo una serie di interrogativi senza risposta. Ho fatto l’errore di non partecipare alla Commissione presieduta da Fioroni per cui è possibile che la cosa mi sia sfuggita, ma non mi risulta che essa abbia mai invitato il presidente Prodi a riferire. Nessuna persona di buon senso può ancora credere che fu una seduta spiritica quella che diede il nome esattissimo di Gradoli: a tanti anni di distanza Prodi potrebbe finalmente dire chi gli diede quell’indicazione. La cosa più incredibile però fu l’uso, o meglio il non uso di quella indicazione che avrebbe consentito di intervenire fin dall’inizio su un covo di straordinaria importanza. Invece tutto l’apparato poliziesco si precipitò in un paesino del viterbese: idiozia o volontà di guardare da un’altra parte?

Secondo interrogativo. Quando Claudio Signorile e Antonio Landolfi si mossero su mandato di Craxi per trovare un aggancio che arrivasse fino ai brigatisti, fecero la cosa più ovvia: si rivolsero a due personaggi “borderline” fra il mondo dell’autonomia e quello brigatista quali Franco Piperno e Lanfranco Pace. La mossa si rivelò giusta tant’è che attraverso di essi fu stabilito un contatto indiretto con Morucci e con la Faranda. Ma dei servizi segreti degni di questo nome non avrebbero dovuto da subito controllare Pace e Piperno per la stessa ragione per cui Landolfi e Signorile li cercarono?

Terzo interrogativo determinato da un colloquio con Misasi, uno degli esponenti della sinistra di base della Dc più seri e intelligenti, molto amico di Ciriaco De Mita. «Io», mi disse Misasi, «mi convinsi che bisognava che la Dc prendesse un’iniziativa per liberare Moro: tu mi conosci, non è che andai a dirlo ai quattro venti. Ne parlai con tre dei massimi dirigenti della Dc per cui ti puoi immaginare quale fu la mia sorpresa e la mia angoscia quando Moro inviò una lettera nella quale mi chiedeva di convocare il Consiglio nazionale della Dc ed esporre lì le mie convinzioni». Una parte dell’interrogativo che deriva da questo ricordo dell’onorevole Misasi è di facile soluzione: probabilmente uno dei dirigenti della Dc interpellati da Misasi parlò con la famiglia di Moro. Evidentemente, però, esisteva un canale finora non emerso fra la famiglia e i brigatisti.

Ultima questione: mi sembra evidente che la direzione delle Br temesse di essere posta di fronte ad una iniziativa ufficiale e pubblica che avanzasse una proposta ( per esempio la liberazione della Besuschio) volta ad avere come contropartita la salvezza di Moro. I brigatisti non volevano essere posti di fronte a una iniziativa politica ( quelle investigative- militari non ci furono) che li avrebbe messi in difficoltà e divisi. La controprova di ciò è che essi uccisero Moro prima che, alla direzione della Dc, Fanfani ponesse il problema dell’iniziativa da parte della Dc per salvare il suo presidente. Ma essi sapevano in anticipo quello che Claudio Signorile mi disse in gran segreto e cioè che Fanfani avrebbe parlato in modo chiaro e netto in direzione dopo i pasticci combinati da Bartolomei ( fanfaniano, presidente dei senatori Dc).

Un’ultima osservazione di merito: può essere un caso ma Morucci e la Faranda furono arrestati a casa di Giuliana Conforto che era figlia di Giorgio Conforto ( nome in codice Dario) che era da molti anni la principale spia del Kgb in Italia, che fu presente all’arresto e fu fatto sgusciare via.

Un’impressione finale sul piano politico. Il gruppo dirigente del Pci fu monolitico nel considerare Moro morto fin dall’inizio. La loro chiusura a testuggine derivò dal fatto che essi ritenevano che le Br, autonome o pilotate, erano un gruppo che operava in primo luogo contro il Pci e la strategia del compromesso storico usando materiale ideologico e operativo tratto dall’album di famiglia, di cui parlò Rossana Rossanda.

Nella Dc chi non ebbe mai un’esitazione furono Andreotti e Cossiga. Il primo fu gelido e disumano nel corso di tutta la vicenda: il problema per lui era solo quello di salvare il suo governo. Cossiga fu dominato dalla ragion di stato, ma almeno lo fece parlando, confrontandosi con molti, combinando pasticci, talora disperandosi. Rispetto a tutto ciò Bettino Craxi espresse un’alternativa in primo luogo culturale e ideale e si affermò come un grande leader, capace di andare controcorrente.