L’ipotesi secondo cui l’ex senatore Antonio Caridi sarebbe stato a tempo indeterminato un esecutore del programma della cupola grigia che avrebbe fatto riferimento all’avvocato Paolo Romeo «non trova nessun riscontro in atti sul piano della gravità indiziaria». Si racchiude in queste parole il passaggio fondamentale dell’articolata sentenza con la quale la Cassazione ha annullato, rinviandola ad una nuova sezione del Riesame, l’ordinanza di custodia cautelare che tiene in carcere da oltre un anno e mezzo il politico reggino, a giudizio nel processo “Gotha” con l’accusa di associazione mafiosa.

Si tratta del secondo annullamento con rinvio, quasi una rarità in giurisprudenza, a riprova di un’esigenza di chiarezza che secondo la Suprema Corte non è stata ancora soddisfatta. Nella sentenza viene salvata la credibilità dei pentiti, censurando però l’utilizzabilità di alcuni atti e il modo approssimativo in cui, in alcuni punti, il tribunale del Riesame ha convalidato l’ordinanza di custodia cautelare, quasi bypassando le censure dei primi giudici di legittimità. È soprattutto sul ruolo di Caridi nella presunta associazione segreta ( la cui esistenza è stata certificata giovedì da una prima sentenza del processo “Gotha”, quella del troncone abbreviato, che ha portato a 28 condanne e 10 assoluzioni) a non essere chiaro, a partire dai rapporti del politico reggino con il fulcro di tale cupola, Paolo Romeo. «Ad eccezione di una conversazione intercettata nel 2014 ( 12 anni dopo la prima, ndr), avente ad oggetto questioni relative alla costituzione della città metropolitana di Reggio Calabria, non è stato indicato nessun altro contatto tra Romeo e Caridi, nessuna intercettazione, telefonica o ambientale, da cui evincere un nesso, un collegamento fra la carriera politica di Caridi e la prospettata struttura segreta che avrebbe fatto capo a Romeo, - si legge nella sentenza-. Si tratta di un dato del quale il Tribunale non ha tenuto conto, non ha fornito nessuna spiegazione, nessuna ricostruzione alternativa in chiave accusatoria». Il presupposto di tutta l’indagine, ovvero l’esistenza di una struttura massomafiosa segreta, capace di condizionare la vita pubblica della Calabria, «è stato considerato provato, seppur a livello indiziario, con una motivazione strutturalmente monca». Un vuoto, insistono i giudici, colmato dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, «che tuttavia, non solo nulla dicono della struttura segreta, ma riferiscono ' solo' di appoggi elettorali di cosche in cambio di assunzioni e di nomine in società partecipate». C’è quindi un salto motivazionale fra la premessa - l’appartenenza di Caridi alla cupola - e la condotta attribuitagli, «che appare collocarsi su un livello obiettivamente molto inferiore, facendosi riferimento a comportamenti che potrebbero essere compiuti prescindendo dal tema dell’associazione segreta». Tema, aggiungono, «inconsistente sul piano indiziario».

La palla, ora, torna ad una nuova sezione del Riesame, che dovrà ricostruire le questioni di «gravità indiziaria», «la condotta in concreto» di Caridi e se questa «sia penalmente rilevante» e come qualificarla giuridicamente, anche in termini di esigenze di custodia cautelare. L’accusa a Caridi è pesantissima: secondo la Dda di Reggio Calabria, sarebbe un «soggetto strumentale rispetto alle finalità della componente riservata e segreta», al cui vertice ci sarebbero l’ex deputato Paolo Romeo, l’ex sottosegretario regionale Alberto Sarra, l’avvocato Giorgio De Stefano ( condannato a 20 anni in abbreviato) e il funzionario Francesco Chirico ( che è stato assolto). Non farebbe parte della “cupola” ma da questa sarebbe stato utilizzato per raggiungere gli scopi necessari, attraverso l’azione politica all’interno delle stanze che più contano. Sarebbero stati diversi i casati mafiosi ad aiutarlo nella scalata politica verso il Senato, mentre lui avrebbe ricambiato con posti di lavoro a uomini vicini ai clan. Il politico, dunque, avrebbe agevolato la ‘ ndrangheta «mediante l’uso deviato del proprio ruolo pubblico», sfruttando tutte le cariche rivestite, dal Consiglio comunale al Senato, “allevato” dalla zona grigia nata per controllare l’economia della Regione. Stando alle carte dell’indagine, Caridi sarebbe stato appoggiato per almeno 13 anni dai clan, ad ogni competizione elettorale, sin dalle comunali del 1997, operando, una volta eletto, «in modo stabile e continuativo in favore del predetto sistema criminale, strumentalizzando il proprio ruolo del funzioni pubbliche esercitate anche da senatore della Repubblica». Un ruolo che occupava fino ad agosto, quando i suoi colleghi di Palazzo Madama, dopo un’accesa discussione, ne hanno votato l’arresto. Gli avvocati Valerio Spigarelli e Carlo Morace avevano provato anche a sostenere l’illogicità del sostegno mafioso, evidenziando i non sempre felici risultati elettorali di Caridi. Un tema che l’ordinanza ha trattato sì in maniera «obiettivamente sbrigativa e congetturale», tuttavia, dice la Cassazione, la tenuta dell’argomentazione «non è priva di ragionevolezza», in quanto la prova dell’appoggio delle cosche alla sua carriera politica «può prescindere dalla fredda analisi dei risultati elettorali» e anche dalla individuazione «del contributo organico e stabile che Caridi avrebbe fornito a fronte dell’appoggio elettorale».