Non sono mafiosi Buzzi e Carminati; non sono mafiosi perché «non è sufficiente il ricorso sistematico alla corruzione» per essere condannati per mafia. I giudici della X sezione penale compendiano così, in poche parole, il senso delle 3200 pagine di motivazioni di condanne e assoluzioni ai 46 imputati del mondo di mezzo. Sono due i capisaldi su cui il tribunale ha impostato la sentenza che ha ridimensionato le accuse mosse dalla procura: da una parte, il fatto che le associazioni riconosciute sono due ( quella legata a Carminati che occupava degli affari della criminalità “classica”, e quella che orbitava attorno a Buzzi, che curava invece gli affari legati agli appalti pubblici) e che tra loro non vi erano interazioni se non tra i due capi riconosciuti. Il tribunale infatti, a seguito del maxi processo che ha occupato l’aula bunker del carcere di Rebibbia per più di un anno e mezzo ha stabilito «che i due mondi - quello del recupero crediti e quello degli appalti pubblici - siano nati separatamente e separati siano rimasti, quanto a condotte poste in essere e consapevolezza soggettiva dell’agire comune». Sull’altro versante poi, per nessuna delle due associazioni riconosciute colpevoli, i magistrati hanno ritenuto di inquadrare il 416 bis ipotizzato dalla procura capitolina e finito sulle pagine di tutti i media nazionali per mesi.

Per i giudici, i numerosi episodi di corruzione e estorsione venuti fuori nel corso dell’indagine e del dibattimento servono a constatare «un sostanziale e gravissimo inquinamento dei rapporti tra politica ed imprenditoria». Rapporti, annotano amaramente i giudici, «che non sono risultati prerogativa esclu- siva del “gruppo Buzzi”» ma che non sono comunque sufficienti per inquadrare il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso per i numerosi imputati.

Quella romana non presenta infatti nessuna delle ipotesi di mafiosità messe in campo dagli inquirenti: né derivata, né autonoma. Non c’è dunque quella che i togati chiamano “mafiosità autonoma”: se da un parte infatti gli episodi di estorsione e violenza venuti fuori si riducono a poco più di una decina nell’arco di tre anni, dall’altro «si collocano in un contesto relazionale e territoriale particolarmente limitato, composto in massima parte o da conoscenti di vecchia data di Carminati e Brugia o da soggetti che comunque frequentavano assiduamente la zona di Corso Francia ed il distributore di benzina gestito dai Lacopo».

Non c’è poi nemmeno quella «mafiosità derivata», maturata nel sottobosco di quello che resta della banda della Magliana. «Non è possibile stabilire una derivazione tra il gruppo operante presso il distributore di benzina, l’associazione operante nel settore degli appalti pubblici e la banda della Magliana, gruppo criminale organizzato e dedito ad attività criminali particolarmente violente e redditizie» scrivono i giudici, visto che «si tratta di un gruppo ormai estinto».

Certo, Massimo Carminati è il naturale punto di contatto tra le due realtà ma, si legge ancora tra le carte, «fama a parte, l’esistenza di un collegamento soggettivo non significa, però, automatico ripristino o prosecuzione del gruppo precedente: non è sufficiente l’intervento di Carminati, “erede della banda della Magliana”, a stabilire un rapporto di derivazione tra detta banda e successive organizzazioni in cui Carminati si trovi coinvolto.

Peraltro, neppure per la banda della Magliana si è potuti giungere ad affermare che si trattasse di un’associazione di tipo mafioso». Non è mafia quindi anche perché, scrivono i magistrati della X sezione penale, quelle del tribunale sono «conclusioni obbligate, (si tratta, peraltro, dello stesso collegio giudicante che nel 2015 riconobbe la mafiosità del clan Fasciani di Ostia), sia per la attuale formulazione dell’art. 416 bis, sia per l’impossibilità di interpretazioni talmente estensive di tale norma da trasformarsi - con violazione del principio di legalità - in vere e proprie innovazioni legislative, che rimangono riservate al legislatore».

«I gruppi criminali come individuati – si legge – appaiono distinti per la diversità dei soggetti coinvolti nelle due categorie di azioni criminose, per la diversità stessa della azioni criminose e per la eterogeneità delle condotte organizzative ed operative». Ed è proprio questa mancanza di omogeneità che ha convinto i giudici a respingere le ipotese della procura: manca «un unicum criminale» che «giunge ad avvalersi di una carica intimidatoria condizionante, da un lato, la legalità dell’agire amministrativo e, dall’altro, la libertà di iniziativa dei soggetti imprenditoriali concorrenti nelle pubbliche gare e ciò al fine di controllare ed orientare in proprio esclusivo favore gli esiti delle relative procedure».