«Ne sarei orgoglioso. È stata questa la prima cosa che ha detto mio padre quando gli ho parlato dell’idea di candidarmi alla presidenza delle Federazione di ciclismo. Poi ha aggiunto che sarebbe stato per me un super lavoro. In quei mesi prima delle elezioni mi ha supportato e sopportato». Norma Gimondi, primogenita del campione bergamasco, è un’avvocata, fino a novembre scorso membro della Corte d’appello federale, è arbitro dell’Unione ciclistica internazionale. È stata procuratrice di alcuni ciclisti, e ha assistito molti atleti nei procedimenti disciplinari e legati al doping. Lunedì ha presentato con il collega Gianluca Santilli, senior partner di Ls Lexjus Sinacta, uno dei principali studi professionali italiani, con nove sedi in Italia, un progetto per creare un dipartimento di diritto e management dello sport.

In genere i figli non sono attratti dal lavoro dei genitori, invece lei il ciclismo ce l’ha nel sangue. Al punto da voler diventare il massimo dirigente della Federazione. Ci riproverà?

Penso di no, mancano tre anni e mezzo.

Il nostro ciclismo è in salute?

In questi ultimi mesi ho avuto modo di conoscere le realtà territoriali e rendermi conto della situazione difficile di alcune regioni. Tranne le isole felici di Lombardia, Veneto e Toscana in tre regioni non esistono i comitati.

I nostri due ciclisti di punta, però, Nibali e Aru, vengono dalla Sicilia e dalla Sardegna.

Sono nati in quelle regioni, ma ciclisticamente Nibali è cresciuto in Toscana e Aru a Bergamo.

Invece il ciclismo femminile come è messo?

Credo che sia il nostro fiore all’occhiello. In questi mesi ho cercato di far passare il messaggio che altre federazioni, come la scherma e la pallavolo, sono state in grado di trovare delle campionesse diventate testimonial dei loro sport. Penso alla Pellegrini, alla Vezzali, alla Kostner e così via. Non riusciamo a trovare una ragazza che possa diventare il simbolo per un movimento in espansione. Fino a trent’anni fa in Italia non esisteva nulla.

C’è anche un vero e proprio boom di quello amatoriale… Mi diverto tanto con i ritrovi vintage, faccio le Granfondo e vado in bici spesso. Devo dire che il turismo amatoriale è un fenomeno bellissimo. La Granfondo di Roma è una delle manifestazioni destinate ad avere sempre maggiori successi e a fare avvicinare tante persone al ciclismo.

Il suo rapporto con il ciclismo, ovviamente, è legato a sua padre. Qual è la prima immagine che le viene in mente?

In casa abbiamo sempre vissuto il classico rapporto tra padre e figli. Mentre gli altri si alzavano la mattina e uscivano con la tuta da metalmeccanico, o in giacca e cravatta, il mio papà era in calzoncini e andava ad allenarsi in bicicletta per quattro- cinque ore. In casa, però, era il classico papà. Quando lo raggiungevamo al Giro o al Tour avevamo la possibilità di incontrare tanti ciclisti. All’estero venivamo spesso ospitati dagli italiani emigrati. I compagni di squadra di papà, Santambrogio, Ferretti e altri, erano spesso a casa nostra per settimane. Merckx all’epoca era l’avversario ed era meglio non nominarlo, ma poi i rapporti sono diventati ottimi.

Dire “piacere, Gimondi” che cosa significa, anche nella sua professione?

Questo cognome è come una medaglia: ha due facce.

Quando incontro le persone e dico “piacere, Gimondi” noto una iniziale apertura, ma subito dopo scatta la diffidenza. A quel punto occorre un lavoro da parte mia per conquistare la fiducia degli interlocutori. Se non avessi questo cognome, forse, avrei dovuto lavorare meno. Sto molto attenta a svolgere la mia attività in modo serio e professionale, perché ho sempre pensato che un errore della figlia di Gimondi possa avere una risonanza molto più grande, rispetto a quello di un altro avvocato.