Il disegno di legge n.2153 in materia di rimborso delle spese di giudizio, presentato lo scorso anno in Commissione giustizia dal senatore Gabriele Albertini ( Ap), era composto da un solo articolo. Un articolo che introduceva un principio di “equità e di giustizia” nell’ordinamento e che era in grado di rivoluzionare in radice il sistema giustizia del Paese.

All’articolo 530 del codice di procedura penale (sentenza di assoluzione) era previsto che fosse inserito il comma 2bis: «Se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice, nel pronunciare la sentenza, condanna lo Stato a rimborsare tutte le spese di giudizio, che sono contestualmente liquidate (...) Nel caso di dolo o di colpa grave da parte del pubblico ministero che ha esercitato l’azione penale, lo Stato può rivalersi per il rimborso delle spese sullo stesso magistrato che ha esercitato l’azione penale» . Tecnicamente la disposizione prende il nome di “ingiusta imputazione”. Attualmente, quando l’imputato viene riconosciuto innocente, le spese legali affrontate per difendersi restano comunque a suo carico. L’unico tipo di risarcimento previsto è quello nei casi di “ingiusta detenzione”.

Quando, cioè, sottoposto inizialmente alla misura della custodia cautelare, l’imputato è stato al temine del processo assolto.

Oltre all’aspetto economico, le traversie giudiziarie, va ricordato, hanno pesanti ricadute sul quelle che sono le condizioni morali e familiari. La modifica legislativa in questione, dunque, avrebbe introdotto una norma di civiltà giuridica a tutela del cittadino nel suo complesso, “responsabilizzando” di fatto anche il pubblico ministero.

Il disegno di legge Albertini riscosse un grandissimo consenso bipartisan, con ben 194 senatori che lo sottoscrissero immediatamente. A memoria è difficile trovare nella storia del Parlamento italiano una proposta di legge condivisa da una maggioranza cosi ampia.

La disposizione sul rimborso delle spese legali, per altro, è in vigore, pur con qualche differenza, in 30 paesi europei. Particolare questo non da poco. In alcuni paesi la cifra da rimborsare viene valutata di volta in volta dal giudice, in altri, come ad esempio la Gran Bretagna, il rimborso attiene all’intera parcella del legale.

La discussione del disegno di legge 2153 in questi mesi si è, però, scontrata con un problema di carattere strettamente economico. Non ci sarebbe, infatti, la necessaria copertura.

Per capire meglio quanto davvero sarebbe costata la norma, il senatore Giacomo Caliendo di Forza Italia, che in Commissione è il relatore della legge, ha provato anche a cercare dati certi sul numero delle assoluzioni piene negli ultimi anni.

Ma oltre all’aspetto economico è subentrato un problema di natura “tecnica” che ha impedito alla legge di vedere la luce nella sua formulazione originaria: l’unificazione della proposta Albertini con quella di Maurizio Buccarella (M5s), il ddl 2259, che propone la sola deducibilità fiscale delle spese legali, ma non oltre i 5 mila euro. Un obolo, considerati quelli che sono i costi della difesa penale.

Il testo unificato, sul quale c’è tempo fino al 26 aprile per presentare gli emendamenti, stabilisce che si possa chiedere la detrazione al massimo di 10.500 euro in tre anni. Stop, quindi, al rimborso integrale come voleva Albertini. La maggioranza, che prevede di stanziare 12 milioni nel 2016 e 25 dal 2017, obietta che una copertura finanziaria più ampia sia impossibile da trovare di questi tempi.

Strano perché per le indagini i budget a disposizione delle Procure sono “no limits”. Tanto per fare qualche esempio, solo per le intercettazioni telefoniche, le Procure italiane hanno speso nel 2014 la cifra monstre di 250 milioni di euro.

Albertini, comunque, non ci sta a che il suo testo sia “annacquato” e ha già annunciato battaglia: «Presenterò un emendamento che alzi almeno a 100 mila euro la detrazione fiscale e preveda il rimborso totale per gli incapienti» .