«La nostra terra ha vissuto tantissimi fascismi, ma ne siamo sempre usciti. La speranza c’è» riflette Leyla Toprak, giovane regista curda di Istanbul che con i suoi film sfida la censura e la propaganda del regime del presidente Recep Tayyp Erdogan. Il mese prossimo i turchi sono chiamati ad esprimersi sulla riforma costituzionale approvata a gennaio dal parlamento, che garantirebbe al presidente poteri molto maggiori rispetto agli attuali e che terrebbe il sultano al suo posto fino al 2029. Se il referendum confermasse la riforma, la repressione messa in atto dopo il fallito golpe del 15 luglio scorso avrà raggiunto il suo scopo. Una repressione che «come sempre ha colpito esclusivamente i democratici» giudica Toprak. Autrice di tre cortometraggi, fra cui il pluripremiato Distant girato a Kobane, Toprak fa parte di quel mondo culturale turco che da mesi sta subendo l’attacco di polizia e tribunali sotto forma di arresti e chiusure di giornali e associazioni con la motivazione dello stato d’emergenza, mai cessato da quella notte di mezza estate.

Amnesty ha denunciato che dopo il fallito golpe sono stati arrestati 118 giornalisti e chiusi 184 organi di informazione turchi. È ancora possibile fare informazione e cultura?

In questi ultimi due anni la realtà è cambiata per giornalisti, scrittori, intellettuali. Per i democratici in generale. Non si fanno più attività culturali perché si corre il rischio di essere arrestati. E c’è una grandissima pressione su chi le fa. Se andiamo a vedere chi è che riesce a fare cultura, sono esclusivamente persone vicine a Erdogan e al governo. Si parla solo di loro e solo le loro opere vengono pubblicizzate. Contemporaneamente la polizia mette i sigilli a teatri, cinema e sale culturali. Giornalisti e personaggi importanti hanno lasciato la Turchia e hanno chiesto asilo in atri Paesi. Ogni volta che c’è stato un golpe in Turchia le conseguenze più gravi le hanno subite i democratici. Anche questa volta hanno parlato di Gulen e di un’alleanza fra esercito e Stato, ma a guardar bene in carcere ci sono intellettuali e parlamentari curdi.

La riforma su cui si terrà il referendum rischia di peggiorare la situazione?

Bisogna vedere cosa succederà. Perché è vero che moltissimi turchi stanno con Erdogan, ma anche fra di loro c’è chi comincia a non essere più convinto. Siamo tutti turbati dalla situazione per motivi diversi: la disoccupazione, il costo della vita in costante aumento, l’enorme numero di rifugiati. E in più quando il fascismo cresce, parallelamente cresce anche l’antifascismo. Nel mio film ‘ Fazzoletti rossi’ del 2015 parlo della vita nelle carceri di alcuni detenuti politici. Adesso molti di coloro che si impegnano nella lotta politica hanno iniziato a farlo sottotraccia, per avere più effetto. Sì, questo referendum potrebbe portare un cambiamento.

Lei è curda di Turchia e nel suo ultimo film Distant, sempre del 2015, parla della battaglia delle donne curde dello Ypj a Kobane. Ha avuto problemi con le autorità del tuo Paese per questo?

Il film ha partecipato a festival abbastanza importanti, però in quel periodo l’atmosfera in Turchia non era pesante come adesso. Adesso sarebbe impossibile, credo. Già appena tornata da Kobane a chiunque proponessi il corto mi dicevano che non avrebbero voluto responsabilità nel proiettarlo, perché sarebbe potuto succedermi di tutto. Io ho accettato di farlo vedere perché lo devo alle persone che ho incontrato a Kobane e perché sono un’artista. Finora non ho avuto problemi con la polizia e le autorità turche ma non è detto che non succederà. Può succedere in qualsiasi momento.

Qual è il messaggio di Distant?

Attraverso le curde che combattono contro l’Isis ho voluto parlare di amore e speranza. Loro si battono per il Rojava, per il Kurdistan tutto ma alla fine anche per la liberazione mondiale degli oppressi e delle oppresse. È una lotta che vuole portare giustizia nel mondo, perché di ingiustizia ce ne è abbastanza.