Nel film «L’uomo della pioggia», il giovane avvocato Matt Damon gira per ospedali, cercando pazienti tra i malati per fargli firmare il mandato. Nulla del genere è consentito in Italia, dove il Codice deontologico forense proibisce l’accaparramento di clientela. Eppure qualche apertura sul fronte della pubblicità professionale è stato fatto, con l’approvazione del nuovo testo dell’articolo sul «dovere di corretta informazione», che allarga le maglie del lecito soprattutto per quel che riguarda i siti internet.«L’avvocato che dà informazioni sulla propria attività professionale, quali che siano i mezzi utilizzati per rendere le stesse, deve rispettare i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale», recita la nuova versione del testo. L’aggiunta riguarda quel «quali che siano i mezzi utilizzati». In buona sostanza, fermi i principi a cui deve essere ispirata la pubblicità, questa può essere fatta in linea generale con qualsiasi mezzo. L’abrogazione, invece, è per i commi che vietavano il reindirizzamento da altri siti web e l’inserimento di contenuti commerciali nel sito, ovvero i banner pubblicitari. Queste previsioni, inserite nella precedente versione del codice per salvaguardare il decoro della professione, rendevano di fatto complesso per gli avvocati dotarsi di un sito internet o di una pagina Facebook senza incorrere nella violazione deontologica.Il limite alla pubblicità, comunque, rimane definito nei termini di correttezza, verità e trasparenza, a tutela del ruolo sociale dell’avvocato: sia sul web che nell’informazione «fisica». Eppure il crinale è sottile. Infatti, la giurisprudenza dello stesso Consiglio Nazionale Forense ha già affrontato moltissime situazioni concrete di pubblicità fantasiosa. E allora è deontologicamente scorretto perché autocelebrativo scrivere sul proprio sito web di distinguersi dai colleghi “troppo spesso apparsi azzeccagarbugli”. Si può invece noleggiare spazi pubblicitari su autobus e pullman, purché le informazioni stampate sui cartelloni siano solo quelle consentite: vale a dire nome e recapiti professionali dell’avvocato. In linea generale, i parametri da rispettare anche con la nuova formulazione dell’articolo rimangono quelli del decoro professionale e del messaggio non ingannevole: vietate dunque le pubblicità che facciano leva su prestazioni gratuite, ma anche la pubblicazione sul proprio sito internet dei nomi dei clienti.La casistica più varia che si presenta sui tavoli (e sugli schermi) dei Consigli degli Ordini, però, dimostra come la teoria e la pratica, spesso, non siano facili da coniugate. Complesso, dunque, stilare una lista dei comportamenti leciti per gli avvocati che vogliano pubblicizzare il proprio studio. Il punto fermo rimane, però, il fatto che la definizione corretta è “pubblicità informativa”: ovvero con lo scopo di informare di un servizio, ma non di trasformare in un bene commerciale l’«anima» di una professione che riveste il ruolo sociale della tutela dei diritti.