“L’atlantismo della ragione che non ammette deroghe ma non accetta subalternità”: parole di Stefania Craxi figlia di Bettino...

“Quando si dice un caratterino. Stefania Craxi, eletta presidente della Commissione Esteri del Senato come esito dell’ultimo suicidio 5stelle, è solo un pochino meno tosta di suo padre”, ha scritto su

Filippo Ceccarelli. Ed è proprio al padre, Bettino, che la figlia ha voluto richiamarsi sostenendo, appena eletta in questi tempi di guerra provocata dall’aggressione di Putin all’Ucraina, la necessità di “una durezza per condurre a un dialogo” e di “un atlantismo della ragione che non ammette deroghe ma non accetta subalternità”.

L’atlantismo della ragione senza deroghe è quello praticato da Bettino Craxi negli anni della guerra fredda. Allora il leader socialista prima condivise il riarmo missilistico della Nato chiesto dagli Stati Uniti per recuperare lo svantaggio derivato dalla installazione dei missili SS20 nelle basi del Patto di Varsavia puntati contro l’Occidente, e poi da presidente del Consiglio fece installare a Comiso, come i tedeschi nella Germania di Bonn, i più potenti missili Pershing e Crouise. Fu la sfida che schiantò letteralmente l’Unione Sovietica, senza bisogno di sparare un solo colpo.

L’atlantismo che non accetta subalternità è quello praticato nell’ottobre 1985 dallo stesso Craxi, sempre come presidente del Consiglio, in quella che è passata alla storia come “la notte di Sigonella”. Dove Craxi ordinò ai militari italiani nella omonima base Usa di circondare e proteggere dall’assalto dei marines un aereo egiziano che era stato costretto ad atterrarvi trasportando verso l’Algeria il capo e alcuni autori dell’operazione terroristica palestinese di sequestro della nave Achille Lauro nel Mediterraneo. A giudicarli non poteva essere un tribunale americano ma la magistratura italiana, come la bandiera che batteva la nave espugnata e poi liberata con la mediazione del Cairo. Neppure al presidente americano in persona, Ronald Reagan, intervenuto con una telefonata dopo una inutile incursione dell’ambasciatore statunitense a Palazzo Chigi, Craxi permise di prevalere. E quando il ministro della Difesa Giovanni Spadolini si dimise per protesta contro la protezione diplomatica del capo dei terroristi garantita dagli egiziani, Craxi reagì prendendone semplicemente atto. Fu poi Spadolini a rinunciare alla protesta perché Reagan riconobbe la sovranità reclamata dal “dear Bettino”, come gli scrisse personalmente predisponendo un incontro chiarificatore alla Casa Bianca.

Con simili precedenti, e in un momento come questo, nel quale si torna a discutere, per via della guerra in Ucraina, come si debba stare nella Nato per perseguire una comune linea di difesa e di sicurezza, solo un politico un po’ troppo improvvisato poteva pensare di fare battere Stefania Craxi nelle votazioni per la presidenza della Commissione Esteri del Senato da un grillino, per quanto diverso da quello precedente, espulso dallo stesso Movimento 5 Stelle perché sfacciatamente putiniano.

Giuseppe Conte ha indirizzato le sue proteste al presidente del Consiglio, reclamando rispetto per gli undici milioni di voti grillini del 2018, più degli otto milioni di baionette della buonanima di Mussolini, senza la consapevolezza - temo della posta in gioco. A Mario Draghi impegnato a condurre con Putin a distanza, insieme col presidente americano Biden e con i soci dell’Unione Europea, un duro confronto per arrivare a una trattativa di pace in una Ucraina sopravvissuta all’invasione grazie agli aiuti occidentali, la soluzione trovata al problema della presidenza della Commissione Esteri non poteva risultare più adatta.

Una presidente di centrodestra come Stefania Craxi, eletta al secondo scrutinio segreto - peraltro col voto determinante non di un renziano, come sostenuto dai grillini, ma di Mario Monti - serve a Draghi anche per contenere paradossalmente Silvio Berlusconi. Che ha recentemente concesso a Matteo Salvini - aumentando il clima di tensione esistente in Forza Italia e la voglia dichiarata al

di stracciarne la vecchia tessera la condivisione di un certo fastidio per il coinvolgimento di fatto dell’Italia nella guerra a causa degli aiuti militari agli ucraini.

Anche Berlusconi a suo modo troverebbe pane per i suoi denti se fosse ancora tentato dal menù di Salvini. Che al Senato, nella discussione su una “informativa” di Draghi, è tornato a borbottare, diciamo così, contro l’invio di altre armi a Kiev assicurando che Putin non rimarrebbe insensibile se il presidente del Consiglio italiano gli proponesse personalmente lo sblocco delle esportazioni di grano ferme per la guerra, una tregua di 48 ore e una significativa rinuncia di Mosca a favore di Odessa ancora ucraina per ospitare l’Expo 2030. Il leader leghista o è troppo informato o troppo ottimista, persino più di Conte, l’altro dissidente “pacifista” della maggioranza.