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Venghino venghino, signore e signori, sta per avere inizio lo spettacolo più bello del mondo. Così parlò, novello Zarathustra, il presidente del Consiglio pro tempore. A occhio e croce, sta per aprire il sipario una sorta di Circo Barnum. Ma un Circo Barmun de noantri. Dove ci sarà di tutto, di più. A cominciare dalle menti brillanti che finora ci ha nascosto, timoroso che gliele scippassimo. Tra tanta bella gente, ci mancherà il meglio del circo. Ma sì, i nani e le ballerine, la donna cannone e il mangiafuoco. Ma non si può avere tutto dalla vita.
La verità, come ha notato Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, è che si va di male in peggio: prima la task force, perché l’angloamericano piace ai provinciali, e poi – niente meno – gli stati generali dell’economia. Una brutta figura dietro l’altra. Perché solo un presidente del Consiglio e un governo privi di idee possono delegare a tecnici più o meno autorevoli decisioni che appartengono a tutto tondo alla politica. A lor signori di Palazzo Chigi e dintorni. E poi c’è il sospetto che, di fronte alla mala parata, Giuseppe Conte consideri i sullodati stati generali più che altro un espediente per tirarsi su per i capelli dalla palude. Come il mitico barone di Münchhausen.
Intendiamoci, l’uomo non va sottovalutato. Tra alti e bassi, il 1° giugno ha spento le prime due candeline del suo governo. È riuscito a restare in sella cambiando dall’oggi al domani la propria maggioranza. Com’era riuscito solo a Pietro Badoglio, Alcide De Gasperi, Giulio Andreotti. Scusate se poco. E prima aveva steso al tappeto – proprio lui, fino ad allora considerato poco più di una nullità dai suoi carcerieri – Matteo Salvini. Del quale tutto si potrà dire tranne che non sia un professionista della politica dal brillante passato e dall’incerto futuro. Fatto sta che Conte non è più l’uomo nato con la camicia di una volta. L’opposizione gli ha fatto marameo e lo ha snobbato. La maggioranza, Pd in testa, rivendica maggiore collegialità. Un lessico da Prima Repubblica che, tradotto dal latinorum, suona pressappoco così: “Basta a fare il padrone delle ferriere. Perché, senza di noi, sei un uomo finito”. E i pm di Bergamo lo ascoltano come persona informata dei fatti. Almeno per ora. Perché, come diceva Lorenzo de’ Medici, del doman non v’è certezza. Gli andava tutto bene. Adesso tutto sembra andargli storto.
A perderlo sono le parole. Le parole sono creature divine. Vanno onorate sempre. Sergio Mattarella lo sa. Nei suoi discorsi più che mettere, toglie. Toglie avverbi, toglie aggettivi per far risaltare i sostantivi. Conte fa tutto il contrario. Anziché togliere, mette. E in un mare di parole affoga il suo pensiero. Sorvolando per di più sul fatto che le parole sono un po’ come la moneta: più aumentano di numero e meno valgono. Ecco, un immaginifico come Conte sta perdendo giorno dopo giorno la battaglia delle parole. Dice di non comprendere il rotondo no della Meloni, di Salvini e di Berlusconi- Tajani, perché Villa Pamphilj “è la sede di alta rappresentanza della Presidenza del Consiglio. Quindi invitarli lì per progettare il rilancio è un gesto di attenzione nei loro confronti, un luogo più istituzionale di questo non si può”. Come se Montecitorio e Palazzo Madama non ci fossero. Una gaffe inqualificabile. Ancora: «Da lunedì partirà il confronto con le parti migliori del Paese». Di grazia, quali sono le peggiori? E poi alla conferenza stampa di ieri l’altro – l’ennesima, per enne tendente all’infinito – ha detto privacy anziché riservatezza e family Act anziché disegno di legge sulla famiglia. Non solo ha usato l’inglese invece dell’italiano, dando un pessimo esempio ai suoi concittadini. Ma delle due, l’una: o ha commesso uno sproposito errore giuridico o ha dato prova di megalomania. Perché disegno di legge in inglese si dice Bill, mentre Act significa legge. Perciò, a quanto pare, ha dato per già approvato dal Parlamento una iniziativa legislativa del governo che ancora deve muovere i primi passi. Imperdonabile. Il Parlamento? Una quisquilia, pare che dica.
Insomma, come direbbe Gino Bartali, è tutto sbagliato, tutto da rifare. Su un proprio disegno di legge il governo avrebbe potuto interpellare il Cnel, ossia il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Composto da esperti e rappresentanti delle categorie produttive e organo – come recita la Costituzione – di consulenza delle Camere e del governo. Mentre le commissioni parlamentari competenti possono sempre disporre indagini conoscitive con audizione di esperti e parti sociali. E invece il Parlamento è concepito come convitato di pietra. Più che un delitto, un errore, che potrebbe costare al numero uno di Palazzo Chigi la cadrega. In tal caso potremmo concludere, con Molière, tu l’as voulu, George Dandin.