Ci sono magistrati e magistrati. Vittime ed vittime. Alcune meritevoli di onore, ricordo, eventualmente risarcimenti da assegnare ai loro familiari. Altri meritano meno. Si ritiene abbiano sofferto meno. È il caso, secondo il Csm, di Loris D’Ambrosio, al quale, due giorni fa il plenum non ha voluto riconoscere lo status di vittima del dovere.

Un omaggio formale che avrebbe prodotto anche conseguenze di tipo economico, a carico dello Stato, e in favore dei congiunti di D’Ambrosio. Ma che soprattutto avrebbe reso giustizia a un uomo colpevole, evidentemente, di aver confessato al telefono, con l’allora ministro Nicola Mancino, visioni diverse da chi credeva nella solidità dell’indagine sulla “trattativa” Stato- mafia.

Ci sono magistrati che meritano onori. E solerzia. D’Ambrosio non li meritava. Almeno a giudizio dello Stato italiano. Che ha sfornato, attraverso vari suoi uomini e amministrazioni, diversi atti sfavorevoli al riconoscimento, per il consigliere giuridico di Giorgio Napolitano, dello status di “vittima del dovere”. Soprattutto, lo Stato italiano ha trattato D’Ambrosio come una questione trascurabile. Una figura sulla quale non valeva la pena di sprecare tempo. E così, una pratica che, in un suo specifico passaggio, avrebbe dovuto essere chiusa in 75 giorni, 2 mesi, è stata ferma quasi tre anni.

Incredibile, ma vero. E evidentemente ingiurioso. Quel tempo lunghissimo ha contribuito, ma è solo la ferocia del destino, per carità, a fare in modo che la delibera con cui il Csm ha definito D’Ambrosio un po’ meno vittima di altri arrivasse giusto pochi giorni dopo la morte di Napolitano. Cioè del presidente della Repubblica di cui il magistrato D’Ambrosio fu consigliere giuridico. Quel presidente della Repubblica che il 26 luglio 2012, subito dopo la morte, per infarto, del proprio collaboratore, lo definì vittima di una «campagna indegna e irresponsabile». È una vicenda pietosa. Della quale colpisce, tra l’altro, una sequenza di date, puntualmente richiamata due giorni fa in plenum dal componente del Csm Maurizio Carbone, che ha letto la relazione sfavorevole a D’Ambrosio. Togato della corrente progressista di Area, Carbone ha ricordato, tra l’altro, che sul riconoscimento dello status di “vittima del dovere” sollecitato dalla famiglia D’Ambrosio, il 10 ottobre del 2018 arrivò a via Arenula il parere, negativo, del pg di Roma Giovanni Salvi. Il ministero della Giustizia in quel momento vede al proprio vertice Alfonso Bonafede. L’esponente 5S inoltra gli atti su D’Ambrosio al Mef, cioè alla parte dello Stato che gestisce la “cassa”. Interviene prima la commissione medica, che esclude una delle condizioni necessarie al riconoscimento in questione. Passa le carte all’organismo decisivo, il Comitato di Verifica, insediato sempre al ministero dell’Economia e composto, ai vertici, da soli magistrati.

È il 13 settembre del 2019. Quanto tempo ci vuole per esaminare una pratica sulla morte di uomo stroncato da un infarto dopo essere stato massacrato da un’intercettazione, e dai giornali, nel quadro dell’indagine “Stato- mafia”, che spinse i pm di Palermo ad allestire al Quirinale una dependance della loro Procura, per ascoltare, quale teste, il Capo dello Stato Napolitano?

Quanto tempo serve, a un Comitato del Mef, per rispondere su D’Ambrosio, per dire se il defunto magistrato era stato, come ha detto solo due giorni fa al Csm la presidente della Cassazione Margherita Cassano, «vittima di un’inaccettabile gogna mediatica» ?

Vi diciamo quanto avrebbe dovuto metterci. È facile, è scritto sul sito del Mef: «Entro 60 giorni dal ricevimento degli atti, il Comitato si riunisce e si pronuncia sulla dipendenza dell’infermità o lesione da causa di servizio, e comunica il parere stesso entro 15 giorni». Ci volevano 60 giorni per decidere e altri 15 per comunicare, in un verbale, la decisione a via Arenula. In tutto 75 giorni. Due mesi e mezzo.

Sapete in che data il Comitato di verifica del Mef ha comunicato al ministero della Giustizia se D’Ambrosio meritava di essere considerato una “vittima del dovere”? Il 16 giugno del 2022. Dopo quasi tre anni. Quasi tre anni per concludere che «dall’esame degli atti non si evidenziano condizioni ambientali od operative di missione comunque implicanti l’esistenza o il sopravvenire di circostanze straordinarie e fatti di servizio che abbiano esposto il dipendente a maggiori disagi o fatiche in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti». Che volete che sia, un po’ di gogna?

«Era un grande. Fu stritolato dal tritacarne mediatico», dice al Dubbio, senza mezzi termini, il magistrato Raffaele Piccirillo, capo di gabinetto a via Arenula con Bonafede e con Cartabia. Il Csm non ha ritenuto che quel massacro giustificasse lo status di “vittima del dovere”. Altri pure, non lo hanno ritenuto. E hanno pensato che D’Ambrosio non meritasse neppure lo sforzo di una risposta, se non dopo 3 mostruosamente lunghi anni.