Nel 1968 Giovanni Gronchi non era più Presidente della Repubblica da sei anni. Dopo di lui erano saliti al Quirinale Antonio Segni e Giuseppe Saragat. Quando lesse su L'Astrolabio un mio articolo che ripercorreva le vicende del 1960 e lo accusava di aver sostenuto fino all'ultimo - dopo averlo fatto nascere - il governo guidato dal democristiano Fernando Tambroni e appoggiato dai fascisti del Msi, telefonò, risentito, a Ferruccio Parri che dirigeva il settimanale e gli chiese di mandargli per un colloquio il redattore che lo aveva diffamato. Andai. Gronchi mi ricevette subito. Aveva ottanta anni, ma ne dimostrava molti di meno. Niente rughe, portamento eretto, sguardo volitivo. Lo tradiva soltanto il dorso delle mani, la cui pelle formava tanti reticoli rialzati, come avviene a tutti i vecchi. Entrò subito in argomento, irritato: «Chi le ha dato queste notizie? ». Risposi con garbo che il segreto professionale mi impediva di dirglielo. Allora cambiò tono e mi diede la sua versione dei fatti. Era stato lui, a suo dire, a impedire il peggio, a evitare che in Italia scoppiasse una guerra civile. Ma che cosa era accaduto nel 1960? Il 21 marzo Tambroni, su incarico del Presidente della Repubblica, Gronchi, aveva formato un governo monocolore democristiano con soli tre voti di maggioranza (300 sì e 297 no) e con l'appoggio determinante dei deputati del Movimento sociale italiano. Proprio per questo appoggio, Bo, Pastore e Sullo, della sinistra Dc, si erano dimessi da ministri. E lo stesso giorno, l'undici aprile, Tambroni fu costretto a dimettersi. Ma Gronchi ne respinse le dimissioni e lo rinviò al Senato, dove il governo ottenne la fiducia con pochi voti di scarto (128 sì e 110 no) e sempre con l'appoggio dei missini. Segue la decisione del Msi di tenere il sesto congresso del movimento il 2 luglio a Genova, città medaglia d'oro della Resistenza. Corre voce di una partecipazione congressuale del principe Junio Valerio Borghese, ex comandante della "Decima Mas" e di Carlo Emanuele Barile, prefetto di Genova nei giorni della repubblica sociale italiana e sottosegretario alle forze armate del governo di Salò. Da questo momento ha inizio nel capoluogo ligure un crescendo di manifestazioni popolari rivolte ad impedirlo. Il 28 giugno trentamila persone ascoltano Sandro Pertini che ricorda: «I fucilati del Turchino, di Cravasco, della Benedica, i torturati della casa dello studente che risuona delle urla delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori». Il 30 giugno uno sciopero generale paralizza la città. I manifestanti si scontrano duramente con la polizia. Alla fine della vera e propria battaglia si contano i feriti, 162 tra gli agenti e 40 tra i civili. La camera del lavoro indice un secondo sciopero generale. non ce n'è bisogno. Genova non ospiterà il congresso missino. I dirigenti del Msi hanno deciso di spostarne data e sede. Ma non è finita qui. Il 2 luglio Giorgio Almirante conversa con un gruppo di giornalisti nel Transatlantico di Montecitorio. Non indossa ancora il doppiopetto. E' il capo indiscusso della minoranza missina, quella delle maniere forti e della contiguità con il fascismo di Salò. «Dobbiamo salvare la faccia davanti ai nostri iscritti», dice, sbrigativo. Ed è chiaro che intende rifarsi dello smacco subito nei giorni precedenti. Ma non è il solo a pensarla così. Arturo Michelini, segretario del Msi, aveva già telefonato a Tambroni e gli aveva posto un ultimatum: pensasse lui a far domare i "rossi" in piazza dalle forze dell'ordine o i missini gli avrebbero tolto l'appoggio in Parlamento. Tambroni accetta il pactum sceleris. Polizia e carabinieri sono pronti a far uso delle armi. La prima prova avviene il 5 luglio a Licata, un piccolo comune siciliano, dove una manifestazione di protesta contro la miseria e la disoccupazione è stroncata con violenza. Al tramonto gli scioperanti occupano la stazione ferroviaria, bloccano i treni, sbarrano il traffico sulla strada principale. La polizia risponde sparando. Sull'asfalto resta un morto, Vincenzo Napoli, venticinque anni, commerciante. Cinque feriti sono portati via a braccia. Nelle stesse ore, al Senato, in sede di replica sul bilancio degli interni, il ministro democristiano Giuseppe Spataro, parla dei fatti di Genova. Definisce gli insorti del capoluogo ligure «quel gruppo di facinorosi». Umberto Terracini e Velio Spano lo interrompono. Volano parole forti. Il dc Tartufoli lancia inopinatamente il grido: «Viva l'Italia». Socialisti e comunisti rispondono a gran voce: «Viva l'Italia partigiana. Viva la Resistenza». Ma il peggio doveva ancora venire. Per la sera del 6 luglio il Consiglio della Resistenza aveva chiesto alla questura di Roma l'autorizzazione a tenere un comizio al Colosseo. Era stata sollevata soltanto un'obiezione sulla zona. «Il Colosseo è troppo centrale», aveva risposto il questore Carmelo Marzano al radicale Leopoldo Piccardi che conduceva le trattative per i partiti antifascisti. La successiva proposta, prontamente accettata, era stata Porta San Paolo, dove il 9 settembre del 1943 soldati e cittadini avevano imbracciato le armi contro i tedeschi. Solo nel pomeriggio del 6 luglio fu notificato al Consiglio della Resistenza un decreto del Prefetto che, per motivi di ordine pubblico, vietava la manifestazione. Il deputato comunista Aldo Natoli si precipitò a San Vitale. Ma Marzano fu irremovibile. «Ho l'ordine di impedire qualsiasi assembramento», disse. «Ce lo avete detto troppo tardi», replicò Natoli, «non c'è più tempo per fermare la gente». «Di questo non dovete preoccuparvi», concluse Marzano, «a evitare che la gente si raduni a Porta San Paolo ci penseremo noi». In una riunione d'emergenza al Consiglio della Resistenza, presenti i più bei nomi dell'antifascismo italiano, da Pertini a Lussu, si decise "in extremis" che un gruppo di parlamentari sarebbe andato comunque a Porta San Paolo, a deporre due corone di fiori sotto la lapide che ricorda i combattenti del '43. La manifestazione sarebbe finita lì. Ma, alle sette, la piazza era già presidiata da polizia e carabinieri in assetto di guerra. Autoblinde, jeep, idranti e in mezzo, immobile, uno squadrone di carabinieri a cavallo guidato da Raimondo D'Inzeo, l'impeccabile vincitore delle gare ippiche. Le due corone, sollevate a braccia, si mossero. E insieme si mossero i cavalieri di D'Inzeo. Tagliarono in due il gruppo di deputati e senatori, sciabolando a destra e a manca, mentre la polizia si lanciava sulla folla con una violenza inaudita. Sembravano drogati. Colpivano e gridavano: «Assassini», «Servi di Mosca», «Porci», «Vi facciamo vedere noi». Gianguido Borghese, deputato socialista e Prefetto della liberazione a Bologna, ricorda: «Sembrava una scena di Eisenstein. Sentii un colpo a un braccio e caddi a terra. Tre o quattro cavalli mi passarono sopra senza toccarmi. Poi arrivarono i poliziotti e cominciarono a picchiare con gli sfollagente. A terra c'erano molti colleghi, Sentii un altro colpo sotto la nuca. Non era un bastone di gomma, forse il calcio di un mitra. Il sangue cominciò a colarmi sulla schiena». Intorno, picchiati anche quando erano caduti, minacciati con i mitra, insultati, soprattutto quando esibivano il tesserino di parlamentari, fermati e caricati a forza sui cellulari, decine di deputati e senatori, da Ingrao a Bartesaghi, da Audisio a Lizzadri. La battaglia - operai e studenti avevano risposto alle cariche con i sampietrini - durò fino a tardi, per trasformarsi nelle ultime ore in una spietata caccia all'uomo lungo i vicoli di Testaccio. La notizia degli incidenti arrivò a Montecitorio insieme con i deputati che, scansato il cellulare, erano stati costretti a ricorrere ai medici della Camera. Parlava il democristiano Del Giudice sui problemi agricoli della Sicilia. Giancarlo Pajetta, Giorgio Amendola, Massimo Caparra, Aldo Natoli, Davide Lajolo piombarono nell'emiciclo gridando: «Ci sono dei colleghi feriti in infermeria». «Lasciateceli», urlò qualcuno dal centro. E fu l'inizio di una delle più gigantesche mischie della storia del Parlamento. Socialisti e comunisti, con un impeto che i commessi non riuscirono a frenare, si scagliarono sui banchi della Dc e del Msi. I neofascisti Nicosia e Leccisi guidarono il contrattacco. La giacca rossa di sangue di Borghese fu innalzata come un vessillo sull'asta divelta di un microfono. Nicosia gridò ai democristiani: «Scendete compatti a fare muro contro questi mascalzoni». Gli fu risposto con un lancio di monetine. Pajetta prese di petto Cossiga. «Vai a braccetto con Almirante», cominciò a urlargli tenendolo stretto. Finché il vecchio Li Causi non riuscì a portarlo via, senza cravatta e con la camicia stracciata sul collo. La battaglia, malgrado due sospensioni di seduta, durò fino all'una di notte. Al Senato, Emilio Lussu riuscì a prendere la parola. Denunciò con durezza la violenza dei "cosacchi in grigioverde", e chiese che il ministro Spadaro venisse subito a riferire in aula. L'indomani, a Reggio Emilia, il sangue fu fatto scorrere a fiotti. Più di venti minuti di fuoco contro i lavoratori che avevano aderito compatti allo sciopero generale di dodici ore proclamato in tutta la provincia. Pretesto: gli assembramenti nei pressi della "Sala Verdi", dove per le cinque di pomeriggio era stato organizzato, e autorizzato, un comizio dei sindacati e dei partiti antifascisti. Ma è un pretesto debole. Prima che la polizia cominciasse a sparare non c'erano stati incidenti di rilievo. Né feriti, dall'una o dall'altra parte. «Ad un certo punto», scrisse un cronista poche ore dopo, «la polizia ha sparato, a lungo e in tutto l'arco di piazza della Libertà. Segni dei proiettili sono stampati profondamente sui muri delle case e perfino su una pesante porta metallica, nelle vetrine, contro il portone della Banca d'Italia, contro la facciata della chiesa di San Francesco». A Reggio Emilia le "forze dell'ordine" obbediscono con zelo agli ordini omicidi di Tambroni e dei fascisti. Quando il fumo degli spari si dirada, il bilancio appare di una gravità eccezionale. Cinque i morti: Lauro Ferioli, Marino Ferri, Ovidio Franchi, Emilio Riverberi e Afro Tondelli. Franchi aveva diciannove anni, Tondelli venti, Ferioli ventuno. "Compagni sia ben chiaro", canterà anni dopo Fausto Amodei, "che questo sangue amaro, versato a Reggio Emilia, è sangue di noi tutti, sangue del nostro sangue, nervi dei nostri nervi, come fu quello dei fratelli Cervi. Quella sera stessa, A Montecitorio, Spataro riferiva sui fatti di Porta San Paolo. Erano in aula Walter Audisio, con un vistoso cerotto sulla fronte, e Giancarlo Borghese, con la testa bendata e un braccio appeso al collo. Tambroni sedeva immobile al banco del governo. Non si scosse nemmeno quando Ingrao lo accusò di vendere la democrazia al prezzo di "ventiquattro miserabili voti fascisti". Né quando Borghese gli sibilò in faccia, freddamente: «Ella, signor presidente, è ritornato ai suoi antichi amori: Se io avessi scritto ciò che ella ha scritto durante il fascismo, mi sarei suicidato». La notizia dei morti di Reggio Emilia fu comunicata da Amendola, che interruppe il ministro degli Interni: «La polizia ha sparato di nuovo siete degli assassini». Solo la presenza dei commessi, ormai in allarme permanente, impedì che l'assemblea dei deputati si trasformasse ancora una volta in un campo di battaglia. Ma qualcosa cominciava a cambiare. L'ultimo oratore, prima della interruzione della seduta, il socialista Oreste Lizzadri, aveva detto con chiarezza: «Il solo dibattito possibile ora è politico e non può avere che un obiettivo, che il governo, questo governo, se ne vada. È il solo modo di evitare altre, più gravi, sciagure». Era un salvagente. E molti democristiani cominciavano a pensare di raccoglierlo. Intanto, per l'indomani, lo sciopero generale fu proclamato in tutta Italia. E fu Palermo, la rabbia popolare, la rivolta dei "ragazzi dalle magliette a strisce", ancora un lungo pomeriggio di sangue. Nel capoluogo siciliano, alle 14, piazza Politeama era gremita di gente. All'improvviso la polizia caricò: caroselli di jeep, manganelli e calci di fucile. I dimostranti reagirono. Con le lastre di marmo delle panchine di via della Libertà, rami d'albero, sedie, pezzi di selciato, costruirono rudimentali barricate. E risposero alle cariche con i sassi. Pompeo Colajanni, il popolare "Barbato" della Resistenza, tentò di fermarli. Nemmeno lo riconobbero. Poche ore dopo, in piazza Massimo, la polizia sparò. Caddero sotto i colpi il muratore Andrea Vella e il manovale disoccupato Andrea Gangitano. La signora Rosa La Barbera, raggiunta in casa da un proiettile mentre chiudeva una finestra, morirà tre giorni dopo. Mentre la polizia sparava, lacero, la barba incolta, i capelli sulle spalle, un uomo cominciò a saltare sulle barricate. Si abbassava, raccattava qualcosa e la riponeva in tasca. Poi faceva un altro balzo e ripeteva l'operazione alcuni metri più in là.. Qualcuno lo bloccò e lo spinse contro un muro, al riparo. «Che diavolo fai? », gli chiese. «Raccolgo il piombo», rispose l'uomo, «e lo vendo. Lo pagano bene, sai? ». Un maturo Gravoche, uscito di peso dalle pagine di un Victor Hugo siciliano? No, forse l'interprete più autentico di una ribellione popolare e, soprattutto, di una realtà che il governo Tambroni non fu il solo a non capire e ad ignorare. Anche a Catania, frattanto, un dimostrante era morto. La Sicilia fece traboccare il vaso. La sera stessa dell'eccidio di Palermo, l'8 luglio, Cesare Merzagora lanciò al Senato la sua proposta di tregua: quindici giorni senza manifestazioni, con la polizia ritirata nelle caserme, con le forze politiche e il Parlamento impegnati nella soluzione del problema Tambroni. Pietro Nenni ne comprese subito la portata e se ne fece mallevadore alla Camera. «Certo», disse, «è un provvedimento eccezionale. Ma cosa non è eccezionale in questo momento? Eccezionale, negativamente, la posizione del governo; eccezionale lo stato del Paese, percorso da un sussulto di volontà non sovvertitrice, ma restauratrice dei valori della democrazia; eccezionale la responsabilità del Parlamento». Amintore Fanfani e Aldo Moro erano già al lavoro per fare uscire la Democrazia cristiana dall'impasse. Il 19 luglio, dopo alcune consultazioni drammatiche con il presidente Gronchi, Tambroni si dimise. Nasceva il governo delle "convergenze parallele", padre del centrosinistra.