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Caro Direttore,
I biglietti di cancelleria della Corte di Cassazione sono macchine del tempo. Ti riportano indietro, “a quando tutto era da fare” come direbbe il poeta. Ti chiedi dov’eri quando questo processo è cominciato. Ti vengono in mente persone, cose, amicizie, amori dimenticati. Ma anche i processi “fanno dei giri immensi e, poi, ritornano”, nella moderna forma di una pec che appare sullo schermo del tuo computer un giovedì mattina qualunque.
Nel 2009, presento un ricorso al Tribunale del lavoro. Una impiegata di un grande Comune italiano voleva (rectius aveva diritto a) essere promossa nella, forse un po’ fantozzianamente ambita, qualifica di quadro. Dopo circa due anni, il Giudice le dà ragione: viene in-quadrata (orribile gioco di parole) e si prende pure un discreto risarcimento del danno da ritardo. Segue ricorso in appello dell’Amministrazione, che dura complessivamente cinque anni e conferma la sentenza di primo grado. Il Comune, e siamo già nel 2016, propone ricorso in Cassazione. Passano gli anni, “gli angoli del presente diventano curve nella memoria” (direbbe un altro poeta) e la sventurata - quanto è vero che “dio ti punisce quando esaudisce i tuoi sogni” - fa ulteriormente carriera: partecipa a un concorso da dirigente, cui può accedere solo in quanto quadro, e lo vince. Ora svolge il lavoro che voleva e guadagna pure bene.
Il 28 febbraio scorso, primo giorno di attuazione della riforma del processo civile, con una coincidenza solo apparentemente significativa - la vita è piena di coincidenze cui attribuiamo arbitrariamente significati per colpa di chi ci ha insegnato che “tutto il reale è razionale”, quando invece sembra vero il contrario, soprattutto nel mondo dell’(in)giustizia - arriva la comunicazione della Cassazione: pubblicata la sentenza, esattamente 14 anni dopo l’inizio dell’odissea giudiziaria. Difetto di giurisdizione! Traduzione, ci siamo sbagliati, non doveva decidere la controversia il giudice del lavoro, ma quello amministrativo. Annullate le sentenze che avevano accolto il suo ricorso, adesso la poveretta ha tre mesi di tempo per ricominciare da capo, cioè per riassumere il giudizio davanti ad un altro giudice perché, secondo la Suprema Corte, a pensarci bene la questione non riguarda un diritto soggettivo, ma un interesse legittimo: la deve decidere il Tar.
“Non ho capito”, mi dice al telefono. “Dopo quattordici anni e due gradi di processo ’di merito’, la Cassazione ritiene che avrei dovuto essere giudicata dal TAR e mi fa ricominciare da capo”.
“Purtroppo ha capito benissimo”.
“E tutto quello che c’è stato in mezzo non vale?”.
Come glielo spieghi? È il riparto di giurisdizione, bellezza. Tutto azzerato, abbiamo scherzato con lei e con la sua vita. Ora il Comune sarà “costretto” a retrocederla a impiegata, perché le carriere nella pubblica amministrazione sono come il Mikado: se tocchi il bastoncino sbagliato, crolla tutto! Inoltre dovrà anche restituire il risarcimento ottenuto (maggiorato di interessi e rivalutazione monetaria maturati negli ultimi undici anni), in attesa che un altro giudice decida ex novo se, nel 2009, avrebbe dovuto essere promossa nella qualifica di quadro. Il che significa ulteriori due gradi di giudizio, con una prospettiva di almeno sei anni di processi.
“Adesso come faccio? Chi me lo paga il mutuo?”.
Nei quattordici anni in cui la giustizia italiana è stata solamente in grado di decidere (neppure definitivamente) quale fosse il Giudice competente, la signora ha comprato una casa, con una rata di mutuo calibrata sullo stipendio da dirigente che oggi si vede dimezzato. Peraltro, come può capitare, si è anche separata dal marito e vive sola con il figlio che ormai sta per iscriversi all’Università e, quindi, è ancora a suo carico. Ovviamente la Cassazione non può occuparsi della rata di un mutuo che, tempesta perfetta, è pure quasi raddoppiata negli ultimi mesi.
Però, casi come questi sono molto più frequenti di quello che si crede. Perché? Perché l’Italia è uno dei pochi paesi al mondo in cui esistono due giurisdizioni che ancora non si parlano tra di loro. Quando capiti nella terra di mezzo, e succede spesso, il nostro processo - prima di affrontare nel merito la questione – si dibatte per anni nello stabilire quale sia il Giudice che deve giudicare con enorme aggravio di costi diretti (per gli interessati) e indiretti (aumento di procedimenti che ingolfano i Tribunali). Anche l’ultima, ennesima riforma del processo, da poco entrata in vigore, non si è interessata al problema.
Così una lavoratrice che credeva di avere diritto ad una promozione, dopo quasi tre lustri, si è vista dire che i Giudici che avevano sancito quel suo diritto non erano competenti (nel duplice significato della parola) avendo sbagliato a giudicare nel merito. Tutto annullato e tanti auguri per il prosieguo! E, ad essere sinceri, non è nemmeno finita. Può darsi che il Tar la pensi come il Tribunale e la Corte di Appello: si dichiari incompetente e sollevi il temibile conflitto negativo di giurisdizione (art. 362 cpc). In altri termini, rinvii gli atti di nuovo in Cassazione, ma stavolta alle Sezioni Unite perché decidano se in Italia esista un giudice che possa occuparsi della mancata promozione della mia cliente.
Vede, Direttore, io non voglio nemmeno spiegarle perché ritengo che la Cassazione si sia sbagliata; non voglio tediarla provando a dimostrare che la giurisdizione era del giudice ordinario come avevano deciso Tribunale e Corte d’Appello. Voglio invece fare una provocazione: ma se pure la Cassazione avesse ragione, se pure il Giudice della aspirante quadro fosse effettivamente quello amministrativo, dopo quattordici anni è possibile dire ad una persona che ha chiesto giustizia (rectius l’avrebbe pure ottenuta) “annullo tutto e ricominci da capo davanti al Tar”? Un sistema giudiziario che funziona così non viola il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale (art. 6 CEDU)?
Massimo Severo Giannini, oltre 60 anni or sono, sosteneva che “nulla è più alieno alla sensibilità dell’uomo comune delle questioni di giurisdizione e di competenza giurisdizionale” e che il criterio di riparto della giurisdizione nel nostro paese configura un “parasistema, cioè un disegno sistematico che perde la propria logica in vari suoi giunti, divenendo incoerente”.
Verrebbe da chiedersi, dopo 70 anni dalla creazione di quel “parasistema” che palesemente ha malfunzionato, perché nessuno abbia trovato il modo per superare il problema. Forse perché il difetto di giurisdizione rappresenta un’ultima disperata via di fuga per la parte processuale più forte, quando è messa alle strette? Non lo so. Molto più semplicemente, mi limito a chiederle: adesso chi glielo paga il mutuo alla mia cliente?
Con i più cordiali saluti,
Andrea Armati